Fattore umano
Per individuare e sostenere esperienze di successo servono risorse e apertura mentale
Parte oggi da Bologna il Viaggio nell’Italia che innova. L’idea del viaggio è accattivante perché sull’innovazione è stato detto molto, se non tutto, mentre la cosa più difficile è farla accadere.
I l viaggio invece consente di scoprire, conoscere, connettere e forse imparare insieme. Viene dunque da chiedersi: cosa portare con sé in un “viaggio nell’Italia che innova”? Alcuni preparano i viaggi in maniera meticolosa, sia che vadano in una metropoli, in una città di provincia o in un territorio inesplorato. Altri tendono a privilegiare la scoperta, l’esperienza, la relazione. Faccio parte del secondo gruppo per due motivi: programmare troppo mi annoia e sono più interessato a vivere che a pianificare; inoltre sono convinto che l’incertezza sia ormai talmente elevata che ogni eccesso di programmazione puntuale rischi di essere vana. Ad ogni modo, la preparazione di un viaggio richiede sempre l’individuazione dell’equipaggiamento minimo, al fine di non trovarsi impreparati o di non perdere delle occasioni. La stessa origine del termine viaggio, dal latino viaticum, indica “la provvista per percorrere il cammino”.
Cosa mettere dunque nello zaino di questo viaggio? Anzitutto un equipaggiamento leggero, in modo da poter esplorare anche territori nuovi e impervi, composto da pochi strumenti per vedere bene e ascoltare anche il non detto, lasciando spazio per le cose da portarsi a casa.
Oggi, più che mai, non ha senso cercare il Modello e neppure la Policy per l’innovazione. È più importante provare a scoprire quali sono le esperienze di successo, capire i bisogni, individuare le opportunità, offrire occasioni di connessione e individuare alcune azioni che possono favorire un’accelerazione. L’inventario delle debolezze strutturali del Paese è abbastanza noioso, non per i contenuti, ma perché l’abbiamo sentito recitare centinaia di volte. Più interessante comprendere cosa funziona e perché.
In quali direzioni guardare? Un primo tema è l’open innovation, di cui oggi si parla molto anche nelle grandi multinazionali, con riferimento ai processi di generazione di idee, sviluppo di progetti e approccio ai mercati utilizzando risorse sia interne, sia esterne. La sensazione è che mediamente le imprese italiane siano un po’ in ritardo in questo campo anche se il paradosso è che i nostri imprenditori sono stati pionieri dell’open innovation mediante la collaborazione nei distretti, nei cluster e nei network organizzativi. Oggi l’open innovation implica modalità diverse di collaborazione tra imprese, università e altre organizzazioni, per via della rivoluzione delle tecnologie per la collaborazione e delle conseguenti modificazioni nella struttura di relazioni tra attori, ma il Dna produttivo del nostro Paese possiede tutti i geni necessari a dominare questa fonte di vantaggio competitivo.
Un secondo elemento riguarda la necessità di porre attenzione a tutta la catena del valore nella ricerca dell’innovazione. Gli sforzi di focalizzazione sul business non devono far perdere di vista le opportunità che si possono creare a monte o a valle delle proprie attività caratteristiche. Questo aspetto apre la strada a una visione più ampia di innovazione che non riguarda unicamente le tecnologie, ma abbraccia la business innovation e richiede necessariamente un mindset che guarda al mercato globale. I casi ci sono e sarà interessante analizzarli.
Un altro aspetto, forse il più importante, è il capitale umano e riguarda da una parte gli imprenditori, i manager e i tecnici e dall’altra i giovani. Il primo gruppo porta la responsabilità di quanto si potrà fare nel breve periodo, il secondo ha la responsabilità di quanto si farà in futuro. In entrambi i casi, è necessario investire sulle persone che rappresentano il vero fattore abilitante dell’innovazione perché la tecnologia da sola non basta: un martello e uno scalpello nelle mie mani produrrebbero risultati diversi di quelli realizzati da Michelangelo.
Sviluppo di competenze basato sulla sperimentazione e sull’esperienza, cultura del rischio, valorizzazione dell’errore come elemento di apprendimento sono gli ingredienti dei casi di successo e dovrebbero forgiare le linee guida per la realizzazione di nuovi percorsi formativi dei più giovani. Chi sono oggi gli innovatori? Quali sono le caratteristiche organizzative delle imprese più innovative? Come fare a ristrutturare la motivazione delle nuove generazioni in modo che il massimo desiderio non sia quello di diventare degli impiegati (tralasciando aspiranti calciatori, ballerine, masterchef o cantanti con il fattore X)? Qual è il ruolo degli ecosistemi territoriali nello sviluppo di una nuova cultura che favorisca la motivazione verso l’innovazione? La generazione di soft skill appassiona poco i policy makers, gli uomini di finanza e trova un terreno parzialmente fertile tra gli imprenditori, ma rappresenta la sfida per il futuro.
Ultima cosa, esistono due condizioni che favoriscono l’attivazione dei processi innovativi: la scarsità di risorse e l’abbondanza di risorse. La prima porta generalmente a miglioramenti incrementali finalizzati a migliorare l’efficienza: negli ultimi anni il settore privato ha spremuto il limone in questo esercizio. La seconda consente la sperimentazione, l’errore e nuove combinazioni di elementi; questo approccio è apparentemente più costoso, ma rappresenta la strada per generare soluzioni dirompenti che consentono di dire «questo lo so fare solo io». La fase economica che attraversiamo non offre larga disponibilità di risorse in eccesso da utilizzare in questo modo, anche se la combinazione di conoscenza potrebbe rappresentare una strada per esercitarsi in questo campo con costi sostenibili.
Fino a qui non ho pronunciato la parola creatività. Buon viaggio.