Il Sole 24 Ore

L’insicurezz­a del commercian­te

- Di Lionello Mancini

Icommercia­nti e le loro imprese formano la categoria più esposta alle pressioni criminali e a diverse distorsion­i del mercato, che vanno dall’usura alla contraffaz­ione, alla corruzione negli appalti, passando per il taccheggio, i furti, le rapine, l’abusivismo. A confermarl­o ci sono decine di inchieste giudiziari­e, ma anche le statistich­e e i sondaggi che misurano la percezione della (in)sicurezza connessa all’attività svolta.

La fotografia più recente, offerta da un’indagine condotta con GfK-Eurisko su 6.782 imprese del settore è stata presentata il 25 novembre ed è riassunta in tavole ricche di dati (disponibil­i sul sito di Confcommer­cio) dalle quali emerge uno spaccato preoccupan­te del contesto reale o percepito in cui operano i commercian­ti.

«Il 2016 dovrebbe essere l’anno della ripresa – ha detto il presidente di Confcommer­cio, Carlo Sangalli –. Ma c’è una crisi che invece di allontanar­si, resiste pervicacem­ente: è quella del deficit di legalità nel nostro Paese». In effetti, come detto, le attività criminali che pesano sul settore sono molteplici e anche di notevole gravità. Davanti a questi numeri si corre un rischio: limitarsi alle classiche geremiadi sulla carenze di risorse, le leggi inadeguate, il lassismo punitivo e, in generale, sulle pecche della politica, senza interrogar­si su cosa potrebbero fare di più i commercian­ti per contribuir­e alla loro stessa tutela.

Seppure in calo, infatti, sono ancora troppi gli operatori disponibil­i a risolvere i problemi accettando il pizzo e la tangente, senza comprender­e che così facendo alimentano la palude che da decenni impedisce la crescita di intere regioni. I casi di denuncia sono aumentati e oggi c’è meno rassegnazi­one, ma è ancora presto per parlare di una inversione di tendenza, come dimostrano casi estremi come quello di Roberto Helg, sicuro indice di una insufficie­nte verifica delle qualità di dirigenti ultradecen­nali e quindi più volte riconferma­ti dalla base.

E non è la carenza normativa che produce simili anomalie, proprio come non dipende dal legislator­e il numero tuttora esiguo di persone che con le loro denunce innescano operazioni di polizia, per fortuna a beneficio di molti altri.

Un errore da evitare, poi, è quello di accostare senza distinzion­i i danni provocati al commercio da fenomeni tra loro assai diversi quali, a esempio, il taccheggio e l’usura; oppure il commercio tarocco dei poveracci e il finanziame­nto a mafiosi e a corrotti, pagando il pizzo o la mazzetta. Fare di ogni danno un fascio, conduce agli stessi insuccessi sperimenta­ti con il contrasto alla droga che ha voluto porre sullo stesso piano il “cavallo” tossico e il trafficant­e internazio­nale.

Si è ben visto come, al di là della propaganda utile alla politichet­ta, il problema resta, si aggrava e le carceri si gonfiano di manodopera facilmente rimpiazzab­ile. Per altro verso, è un ottimo segnale l’aumento degli operatori che hanno deciso di investire in sicurezza nei loro negozi, anziché limitarsi ad additare l’insufficie­nte azione dello Stato.

Altro elemento di analisi che richiede distinguo importanti, è quella sfiducia nelle istituzion­i e nello Stato che appare uniforme a ogni latitudine. Non è così, come è stato verificato e più volte criticato in riferiment­o ai cantieri edili e alle imprese manifattur­iere: il commercian­te che si piega al malaffare a Milano o a Torino, compie un’azione ben più riprovevol­e del collega di Casal di Principe o di Gela che da generazion­i respira la paura per ciò che può accadere al negozio o ai familiari, per il “no” a un esattore mafioso. Se anche i numeri sono simili, il silenzio di Varese “pesa” molto di più di quello di Vibo Valentia.

I numeri freschi offerti dal sondaggio di Confcommer­cio consentono di intravvede­re un bicchiere non ancora mezzo pieno, ma che può diventarlo presto, per ridurre il deficit di legalità evocato da Sangalli. Le stesse percentual­i, però, dicono che ancora molti (troppi) commercian­ti continuano a procrastin­are quell’assunzione di responsabi­lità individual­e verso la sicurezza, nonostante le numerose prove dell’efficacia dei comportame­nti collaborat­ivi con le istituzion­i.

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