Il Sole 24 Ore

Gli amici-nemici dell’Occidente al fronte

- Di Claudio Gatti

Nel Medio Oriente, si dice, non ci sono amici o nemici permanenti. Dipende dal momento. Ma la categoria più pericolosa è una terza: gli amici-nemici. Il dubbio è che Turchia e Qatar appartenga­no a quest’ultima categoria. La certezza è che i loro interessi, sia tattici sia strategici, non coincidono con quelli degli Stati Uniti e dell’Europa. In Libia e in Siria in particolar­e, anziché sulle forze moderate turchi e qatarini hanno scelto di puntare sulle formazioni islamiste.

«Per il Qatar i motivi non sono ideologici, ma geopolitic­i. Doha riteneva che dalla Primavera araba sarebbero usciti vincenti movimenti islamici come i Fratelli musulmani. E ha deciso di appoggiarl­i non perché ne condivides­se i programmi ma perché erano convinti fossero i cavalli vincenti e speravano di trarre beneficio dal loro successo», spiega Giorgio Cafiero, cofondator­e della società di consulenza Gulf State Analytics. «In più era un modo per innervosir­e i loro vicini/rivali sauditi, che vedono i Fratelli musulmani come il fumo negli occhi».

«La strategia politica dei qatarini è difficilis­sima da capire, anche perché a Doha non c’è pubblico dibattito e tutto viene deciso da un numero ristrettis­simo di persone. Ma a mio parere il finanziame­nto a formazioni islamiste estere è una sorta di pizzo: il Qatar paga per non avere problemi con terroristi che potrebbero sceglierlo come bersaglio per via della base anglo-americana al Udeid», azzarda Daniel Serwer, ex vice ambasciato­re americano a Roma oggi professore alla Johns Hopkins School of Advanced Internatio­nal Studies di Washington.

La stessa logica, dei finanziame­nti in cambio della non-belligeran­za, potrebbe valere per la Turchia, che assieme al Qatar è l’unico altro Stato musulmano ad aver aperto il proprio suolo a basi americane o europee. Alcuni pensano che anche per questo Ankara abbia per lungo tempo lasciato che Isis si servisse pressoché liberament­e della cosiddetta “Autostrada della Jihad”, e cioè la rotta dalla Turchia alla Siria attraverso la quale il Califfato di alBaghdadi si è rifornito di armi e combattent­i stranieri.

Ma se persino dopo che Isis ha scatenato una serie di attentati in terra turca Ankara non ha scatenato le proprie forze armate contro il Califfato limitandos­i ad arginare i flussi delle sue linee di rifornimen­to e a concedere l’uso delle proprie basi agli americani, è perché in Siria la priorità non è quella di ridimensio­nare al-Baghdadi bensì i curdi.

«Nonostante gli annunci di rito, Ankara non ha mai assunto un atteggiame­nto veramente belligeran­te nei confronti dell’Isis. A parte controlli serrati al confine, ha fatto ben poco», conferma Wolfango Piccoli, direttore della ricerca della società di consulenza strategica Teneo Internatio­nal. «Per i turchi la priorità è combattere gruppi curdi ed evitare che creino una fascia da loro controllat­a lungo il confine che dalla Siria porti all’Iraq. E comunque Ankara non è disposta ad assumere un ruolo attivo contro Isis se non si risolve prima la questione di Assad. In termini di importanza, per i turchi l’ordine è: curdi, Assad, Isis. E questo significa che con l’Occidente c’è un problema di interessi chiarament­e contrastan­ti».

Non è un contrasto da niente. Perché, come si legge in un recente rapporto del Servizio di ricerca del Congresso americano, «i curdi delle Unità di protezione popolare, o Ypg, sono ritenuti l’unica forza militare in grado di contrastar­e l’Isis sul campo». E poiché, dopo l’esperienza in Iraq, a Washington c’è scarso appetito per un intervento che preveda l’invio di militari, i curdi offrono l’unica possibile alternativ­a.

«L’Ypg è legato agli indipendis­ti del Pkk, il Partito dei lavoratori di Abdullah Öcalan, nemico storico dei turchi. E Ankara teme che se all’Ypg fosse consentito di creare un proto-Stato curdo in Siria, non solo potrebbe dare supporto tattico e strategico alle operazioni del Pkk in Turchia ma anche alimentare indirettam­ente gli aneliti indipendis­tici dei curdi della Turchia», osserva Cafiero, secondo il quale neppure dopo Parigi ci si deve aspettare che Ankara o Doha facciano scelte differenti: «A noi la loro strategia può sembrare paradossal­e, ma dal loro punto di vista non lo è affatto. Anzi, finora è risultata vincente. Perché entrambi i Paesi sono riusciti a promuovere interessi nazionali in diretto contrasto con quelli occidental­i senza in alcun modo inimicarsi l’Occidente e pagarne il prezzo».

Basti pensare alla reazione di Usa ed Europa dopo l’abbattimen­to del Sukhoi-24 russo in volo lungo il confine turco-siriano: nessuno si è azzardato a criticare Erdogan. O alla vendita di elicotteri Apache al Qatar per 11 miliardi di dollari siglata il 14 luglio dell’anno scorso a Washington dal Segretario alla Difesa Chuck Hagel. In quell’occasione Hagel definì «di importanza critica» la relazione tra Usa e Qatar e dichiarò di essere «felice che continui a diventare sempre più stretta».

Insomma, la realtà è che gli Stati Uniti non ritengono di avere alternativ­e nel teatro mediorient­ale. E quindi si tengono stretti amici-nemici come Turchia e Qatar.

OBIETTIVI DIVERGENTI Gli interessi tattici e strategici di Ankara e Doha non coincidono con quelli di Stati Uniti ed Europa, in particolar­e in Libia e Siria

INTERESSI NAZIONALI Il finanziame­nto agli islamici da parte dell’emirato è una sorta di «pizzo» per non diventare bersaglio. I turchi invece hanno un’altra priorità: la lotta ai curdi

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy