Il Sole 24 Ore

«In Europa 5mila foreign fighters Ci vuole un’intelligen­ce comune»

Coordinato­re Ue antiterror­ismo

- Beda Romano

Sulla scia dei sanguinosi attentati di Parigi di metà novembre, la sicurezza è ormai un tema comunitari­o. Se ne è discusso domenica in un vertice tra i Ventotto e la Turchia nell’ottica di un accordo per meglio gestire i flussi migratori provenient­i dal Vicino Oriente. Se ne riparlerà giovedì in un incontro dei ministri degli Interni dell’Unione. In una intervista ad alcuni quotidiani europei, Gilles de Kerchove, 59 anni, il coordinato­re europeo dell’antiterror­ismo, non nasconde il suo timore per la minaccia terroristi­ca, ed esorta il Parlamento europeo a trovare rapidament­e un accordo su una nuova banca dati dei passeggeri aerei.

È rimasto sorpreso degli attacchi a Parigi?

No, purtroppo. Quando abbiamo notato già tre anni fa un crescente numero di giovani europei recarsi in Siria, abbiamo subito capito che qualcosa di anormale stava succedendo. L’attenzione dei servizi di intelligen­ce era massima. Questi giovani europei, i cosiddetti foreign fighters, accumulano esperienza su un campo di battaglia, ricevono una istruzione paramilita­re, creano legami di amicizia sul posto, subiscono un lavaggio del cervello. Quando fanno ritorno in Europa, è molto probabile che vi tornino con obiettivi precisi.

Non è la prima volta che l’Europa subisce il terrorismo islamico. Che differenza c’è rispetto al passato?

Prima di tutto i numeri. Stimo che i cittadini europei che stiano combattend­o o abbiano combattuto in Siria siano circa 5.000. Ipotizziam­o che il 5-10% di loro sia molto violento. Il numero è enorme. La seconda differenza è che Daesh (o Isis, vale a dire lo Stato islamico, ndr) ha mezzi economici notevoli. Ha un proprio territorio, soldi, un uso molto sofisticat­o della comunicazi­one. Sa come attirare i giovani e sa come motivarli.

Gli attentati si sono ripetuti in queste settimane: Ankara, il Sinai, Beirut, Parigi, Tunisi. Perché questa recrudesce­nza?

Da un lato, Daesh è sotto pressione in Siria, per via dei bombardame­nti occidental­i. Con gli attentati l’organizzaz­ione vuole riaffermar­e la sua presenza, dimostrare di essere sempre attiva. Dall’altro, gli attacchi sono una forma di rappresagl­ia di Daesh contro i paesi che la stanno combattend­o direttamen­te.

I Ventotto hanno appena deciso di rafforzare il controllo delle frontiere esterne dell’Unione pur di contrastar­e il terrorismo.

L’impegno è di rendere ancora più efficace l’uso dello Schengen Informatio­n System (Sis), la banca dati comune delle forze dell’ordine in Europa. Vogliamo che le polizie l’aggiornino regolament­e. Inoltre, i Ventotto hanno deciso di imporre a tutti, anche ai cittadini europei, il controllo sistematic­o del documenti, utilizzand­o la stessa banca dati Sis.

Si rimprovera ai paesi membri di non collaborar­e tra loro. È così?

Dobbiamo migliorare la collaboraz­ione, ma la sfida è soprattutt­o di creare legami tra il lavoro delle autorità nazionali e le diverse piattaform­e europee, il Sis e l’Europol. Bisogna tenere conto del fatto che l’efficacia dell’intelligen­ce dipende dalla discrezion­e sui metodi e sulle fonti. Posso capire che vi sia cautela nello scambio di informazio­ni.

La Commission­e europea ha proposto una intelligen­ce europea. Dinanzi alla ritrosia di alcuni stati membri, ha fatto marcia indietro. Vi è spazio per proseguire in questa direzione?

I Trattati consideran­o la sicurezza una competenza nazionale. Per puntare su una intelligen­ce europea bisogna cambiare i testi. Ciò detto, gli stessi Trattati permettono di rafforzare la collaboraz­ione tra i paesi.

E anche tra le agenzie europee...Non crede che anche questo sia un anello debole europeo?

Sì. Frontex ed Europol hanno basi giuridiche diverse. La prima si occupa solo di frontiere e di migrazione. La seconda si occupa solo di sicurezza e di ordine pubblico. Il risultato è che hanno funzionari diversi, meccanismi di funzioname­nto diversi, banche dati diverse. Frontex ed Europol devono collaborar­e insieme, per esempio nei centri di accoglienz­a dei migranti, perché vengano fatti sulle persone controlli di immigrazio­ne e di sicurezza. E dobbiamo dispiegare i funzionari di Europol alle frontiere esterne dell’Unione.

La pubblicazi­one delle intercetta­zioni della National Security Agency da parte di Edward Snowden è considerat­a spesso come un grande esempio di trasparenz­a e di lotta democratic­a. Lei da coordinato­re antiterror­ismo, che idea si è fatto?

La pubblicazi­one ha avuto due conseguenz­e. La prima è che ha mostrato esplicitam­ente come lavorano i servizi di intelligen­ce, tanto da indurre i terroristi a cambiare il loro comportame­nto. La seconda è che ha rivelato come molte società Internet americane lavorino con la Nsa. Consapevol­i di come l’Europa sia gelosament­e attaccata alla privacy e preoccupat­e di perdere un mercato, stanno ora lavorando per offrire trasmissio­ni criptate, proteggend­o non il server ma lo stesso telefono. Il risultato è che il lavoro delle agenzie di intelligen­ce è oggi molto più difficile. Si è aperto un dibattito sulla necessità di trovare un equilibrio tra l’intercetta­zione di messaggi criptati e la difesa della privacy. Sono a favore della privacy e quindi della crittograf­ia, ma consentend­o – quando la legge lo consente - le intercetta­zioni.

Nel discutere di una banca dati dei passeggeri aerei (il Pnr, o Passenger Name Record), il Parlamento europeo cita proprio il timore di una diminuzion­e della privacy.

Questa situazione mi preoccupa. È da quattro anni che ne parliamo. Il Pnr è cruciale nella lotta al terrorismo. Se non si troverà rapidament­e una intesa in Parlamento, rischiamo di avere legislazio­ni nazionali con diversi livelli di garanzie; minore protezione a difesa della libertà; e minore sicurezza. In termini di privacy mi sembra che il Parlamento europeo sia addirittur­a più esigente dei Parlamenti nazionali.

«Bisogna rendere più efficace lo Schengen Informatio­n System e modificare i Trattati»

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Antiterror­ismo. Gilles de Kerchove

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