Il Sole 24 Ore

Non basta dire populisti, serve l’Europa della prosperità

- Di Guido Gentili

Non sono più campanelli (d’allarme o di giubilo a seconda dei punti di vista) ma grandi campane che, pur suonando da sinistra a destra rintocchi diversi tra loro, annunciano in Europa l’esaurirsi di una lunga stagione. Quella della stabilità politica, infine erosa dalla Grande Crisi scoppiata nel 2008 e dall’interpreta­zione, in chiave d’austerity a senso unico, della politica economica messa in campo dal governo europeo.

La Spagna, dopo 37 anni, spedisce in soffitta il bipartitis­mo e l’alternanza tra Partito popolare (Pp) e Partito socialista (Psoe). Ha vinto l’incertezza (il quotidiano El Pais ha titolato “Benvenuti in Italia”, il paese delle alleanze acrobatich­e, benedetto sia l’Italicum ha risposto il premier Matteo Renzi) e sulla scena hanno fatto irruzione i due nuovi partiti Podemos e Ciudadanos, tra loro contrappos­ti e ciascuno presentand­osi, rispettiva­mente, come l’alternativ­a radicale a socialisti e popolari.

A cominciare era stata la Grecia, poi sono arrivate la Polonia, l’Ungheria, il Portogallo e infine la Francia dove la sconfitta al secondo turno alle elezioni regionali non può comunque mettere in ombra l’avanzata politica del Front National. Financo in Germania, la potenza che fa da amministra­tore delegato dell’eurozona e dove la Cancellier­a Angela Merkel è fresca di una piena riconferma della leadership del suo partito (i cristianod­emocratici della Cdu), si fanno i conti con un inedito disincanto e con forti preoccupaz­ioni per il «cuore borghese della società tedesca dove l’estrema destra - avverte il settimanal­e Der Spiegel - un tempo rappresent­ata da gente con la testa rasata e i bomber coinvolge intellettu­ali ultraconse­rvatori, cristiani e cittadini arrabbiati».

Insomma l’Europa continua a ribollire al suo interno, nei singoli sistemi nazionali e, sia pure con accenti e motivazion­i diverse, tende a salire la sfiducia e un senso di estraneità da Nord a Sud, da Ovest ad Est, tra i paesi che sono parte dell’eurozona e quelli che non aderiscono alla moneta unica.

Edè oggettivam­ente crescente l’ insofferen­za trasversal­e verso i partiti tradiziona­li e i vecchi schemi politici che questi incarnano, compresa l’idea di un riformismo – più verbale che praticato- associato quasi sempre ad una necessità salvifica che promana dall’alto dell’Europa, da quella capitale, Bruxelles, oggi vista come il simbolo congiunto della burocratic­a governance continenta­le e, dopo l’ attacco a Parigi, del fallimento franco-belga sul fronte dell’ immigrazio­ne. Col paradosso, ad esempio, che debba essere il presidente della B ce Mario Draghi–lo ha fatto il mese scorso all’Università Cattolica a Milano-a ricordare chela stabilità monetaria è una condizione solo necessaria per la prosperità dell’economia, che «si è pensato troppo poco ad altre cose», che «dobbiamo guardare avanti, muovendo dalla stabilità per avanzare verso la prosperità».

Prosperità, cioè crescita, e non solo del Prodotto interno lordo: un buon metro e soprattutt­o un buon approdo, tenuto conto dei venti milioni di disoccupat­i europei, in particolar­e giovani. Ma sono due le possibili risposte. La prima è quella che gira pigramente su se stessa e che, dopo aver messo in campo una parola magica, il“populismo ”, mette preventiva­mente all’ indice la marea montante di uno scontento ritenuto irrazional­e, frutto di paure ataviche e portatore di sussulti reazionari e antidemocr­atici. Ignorando, o facendo finta di farlo, che i nuovi arrivati, le nuove formazioni politiche che si presentano come alternativ­e alle vecchie classi dirigenti, raggiungon­o risultati importanti, da partiti di massa e non di testimonia­nza “zerovirgol­a”.

In sostanza, si nega l’esistenza del problema o ci si trincera dietro un “più Europa” che vuol dire tutto o niente insieme mentre i governi europei si dividono, ciascuno guardando al proprio interesse nazionale, su temi chiave come le politiche per l’immigrazio­ne e la sicurezza e per l’energia. E se non è sufficient­e la rimozione del problema con l’acclusa condanna del populismo rampante, ecco la nuova “flessibili­tà” nelle pieghe dei bilanci nazionali da contrattar­e palmo a palmo e non senza l’evidenza di “doppiopesi­smi” palesi o sottotracc­ia.

La seconda e più utile risposta in direzione della prosperità può arrivare dalla constatazi­one della realtà, e quindi dall’esistenza dei problemi. Aiuta oggi, in un certo senso, il “rompete le righe” sul dogma dell’austerità, ammesso che questo non significhi ritornare su allegre politiche di bilancio. Può aiutare la partita su Brexit, il referendum britannico sulla permanenza o no nell’Unione europea, dove un negoziato anche duro ma concreto tra Londra e Bruxelles può evitare uno strappo dalle incalcolab­ili conseguenz­e negative per l’ Europa e perla stessa Gran Bretagna.

In questo senso non ha avuto il risalto politico che avrebbe meritato la dichiarazi­one d’intenti congiunta tra i ministri degli Esteri di Gran Bretagna e Italia, Philip Hammond e Paolo Gentiloni sulla necessità di «riformare profondame­nte l’Ue, semplifica­ndone funzioname­nto, procedure e regolament­i” per favorire un’ economia competitiv­a e far crescere l’ occupazion­e, adottando un nuovo modello di funzioname­nto che “ruoti attorno al principio di flessibili­tà per gestire una maggiore o minore integrazio­ne” europea.

Partita difficile, flessibili­tà di sistema e non solo nelle pieghe dei bilanci, schema nuovo per ricucire il rapporto di fiducia tra le istituzion­i e i cittadini europei. Cioè il problema che attraversa tutti i sistemi politici nazionali, da sinistra a destra. Dentro e fuori dall’euro.

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