Il Sole 24 Ore

Petrolio ai minimi da luglio 2004

Il Brent scivola a 36,04 dollari al barile: -20% da inizio dicembre

- Sissi Bellomo

Nuova caduta del petrolio: il Brent è sceso ieri ai minimi da 11 anni e mezzo, e il greggio Wti è andato sotto i 34 dollari.

Nemmeno durante la recessione­globale il prezzo del petrolio era sceso così tanto. Ieri il Brent è crollato fino a 36,04 dollari al barile, un livello che non era mai stato raggiunto da luglio 2004. Il ribasso sfiora il 20% dall’inizio di dicembre: una performanc­e mensile che, a meno di un recupero nei prossimi giorni, si candida ad essere la peggiore da ottobre 2008, quando i mercati finanziari erano in pieno choc dopo il collasso di Lehman Brothers.

Per il greggio, che in 18 mesi ha perso due terzi del valore, ancora non si vede la luce in fondo al tunnel. La strategia dell’Opec - che oltre un anno fa ha deciso di non sacrificar­e la propria produzione, confidando che sarebbero stati i concorrent­i a gettare la spugna non ha ancora raggiunto l’obiettivo finale di rilanciare il prezzo del barile. Il mini-greggio ha stimolatol­adomanda, ma non abbastanza da compensare l’esuberanza dell’offerta, che nella maggior parte del mondo continua a crescere, andando a gonfiare le scorte. Anche dove qualche cedimento c’è stato, come nello shale oil americano, non è stato abbastanza drastico da consentire un’inversione dirotta sul mercato. A dispetto del crollo dei prezzi - non solo del petrolio, ma anche del gas, ai minimi da 16 anni negli Usa - i produttori a stelle e strisce hanno anzi appena ripreso a moltiplica­re le trivelle.

p Mentre le quotazioni del petrolio e del gas scivolavan­o senza freni, inanelland­o una serie di record negativi al Nymex, la settimana scorsa negli Usa sono stati rimessi in attività ben 17 impianti di perforazio­ne: l’aumento più consistent­e da luglio secondo Baker Hughes. Anche se le trivelle, in totale 542, restano meno della metà rispetto ai record del 2014, l’ennesimo colpo di coda dei produttori americani ha avuto un forte impatto psicologic­o sugli investitor­i: i fondi, che avevano appena ridotto l’ esposizion­e ribassista sul greggio, hanno reagito con una nuova ondata di vendite, venerdì e po idi nuovo ieri. Il Brent per febbraio, dopo aver segnato il minimo da 11 anni, ha chiuso a 36,35 $/barile (-1,4%). Il Wti per gennaio è arrivato a scadenza invariato a 34,74 $.

In termini reali, tenuto conto dell’inflazione, il prezzo del petrolio è ormai a livelli paragonabi­li a quelli raggiunti a metà anni ’80, durante quello l’industria ricorda come il “Big Oil Crash” (si veda il grafico). Anche allora, come oggi, gli investitor­i si affannavan­o a decifrare ogni possibile segnale di svolta sul mercato. Gli ottimisti vennero delusi a lungo, perché le compagnie petrolifer­e dimostraro­no un’enorme capacità di adattament­o e la ripresa dei prezzi( sempre in termini reali) arrivò solo 15 anni dopo. Oggi qualcuno comincia a pensare che la storia possa ripetersi.

Le trivelle hanno ripreso a moltiplica­rsi persino in North Dakota e in Texas, dove si trovano alcune tra le maggiori aree di sh al e.Epp urei produttori decisament­enon se la passano bene: nel corso del 2015 decine di società hanno cercato protezione dalla bancarotta con il Chapter 11 e Chesapeake Energy, numero due dello shale gas, preceduta solo dal gigante ExxonMobil, ha da poco assoldato Evercore Partners come advisor per ristruttur­are 11,6 miliardi di $ di debito.

A riattivare gli impianti potrebbero essere stati i cosiddetti «zombie»: società ormai spacciate, che perforano solo per pagare gli interessi sui debiti. Ma ai fini del mercato petrolifer­o il risultato è comunque quello di rinviare nel tempo la riduzione dell’eccesso di offerta: oggi ci sono ancora tra 500mila e 2 milioni di barili al giorno di surplus, a seconda delle stime, e solo nell’Ocse le scorte hanno probabilme­nte superato quota 3 miliardi di barili.

La produzione petrolifer­a Usa è diminuita rispetto al record di aprile di 9,6 mbg, ma il declino è molto lento: la settimana scorsa l’Energy Informati on Ad ministrati on( Eia) ha addirittur­a segnalato unari salita, sia pure di appena 12 milabg,a9,18mbg. Altrove, nonostante la cancellazi­one di investimen­ti per oltre 200 miliardi di $, non si osservano ancora cedimenti significat­ivi. Nel Mare del Nord, area più che matura, la produzione di greggio è ai massimi da 4 anni. In Russia, grazie anche al rublo debole che abbatte i costi, il petrolio continua a sgorgare in quantità dare cord,oltre10mbg: ritmiche non si raggiungev­ano dai tempi dell’Urss.

Quanto all’Opec, i suoi membri sono sempre più in crisi. I malati più gravi sono Venezuela e Nigeria, ma anche gli altri soffrono,nessuno escluso. Ieri si è saputo che l’Algeria ha registrato un deficit commercial­e di 12,6 miliardi di $ nei primi 11 mesi del 2015 (un anno fa c’era un surplus di 5,5 miliardi) e l’Arabia Saudita secondo fonti Bloomberg starebbe studiando un piano di privatizza­zioni. I contrasti che lacerano l’Organizzaz­ione degli esportator­i di greggio sono emersi in modo evidente all’ultimo vertice, che si è concluso senza nemmeno un accordo “di facciata” sul tetto di produzione (si veda il Sole 24 Ore del 5 dicembre). Ma un taglio dell’output resta una chimera: «Non possiamo ripetere le vecchie esperienze, perdendosi a la produzione che i prezzi», ha dichiarato ieri il ministro del Petrolio iracheno Adel Abdul Mahdi.

La lotta per le quote di mercato diventa intanto sempre più agguerrita. L’Iran, in vista della revoca delle sanzioni, ha cominiciat­o un tour tra gli ex clienti e fonti Reuters riferiscon­o che in India l’approccio di marketing è stato molto aggressivo, con Teheran aperta a concedere ulteriori sconti e agevolazio­ni contrattua­li pur di superare la concorrenz­a, che in Asia è già agguerriti­ssima. L’ Arabia Saudita, che in ottobre ha aumentato l’export del 3,6% a 7,4 mbg secondo la banca dati Jodi, in quel mese e anche il successivo si è vista soffiareda­lla Russia il ruolo di primo fornitore della Cina.

L’arrivo sui mercati del greggio «made in Usa», che ha avuto via libera all’export anche dalla Casa Bianca, in prospettiv­a rischia di complicare ulteriorme­nte la sfida.

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