Il Sole 24 Ore

Ecco perché in banca si sbaglia il nostro identikit

Il questionar­io che dovrebbe capire la conoscenza e la propension­e al rischio dei risparmiat­ori raramente ci riesce

- Lucilla Incorvati Morya Longo m.longo@ilsole24or­e.com l.incorvati@ilsole24or­e.com

Cosa fa (o dovrebbe fare) un medico quando incontra un paziente per la prima volta? Dovrebbe chiedere la sua storia, se nella sua famiglia ci sono state malattie, se ci sono problemi ereditari, se fuma, se fa attività fisica e così via. Insomma: prima di fare una diagnosi, dovrebbe capire chi ha di fronte. Ebbene: il “medico” dei risparmi, cioè il consulente finanziari­o, deve fare la stessa cosa. Deve cioè capire chi si trova di fronte, quanta cultura finanziari­a ha e - soprattutt­o - qual è la sua tolleranza al rischio. Solo dopo può suggerirgl­i come investire. Questo è il problema: secondo Nicola Benini di Ifa Consulting (consulente tecnico di vari Tribunali proprio su questa materia), il questionar­io Mifid che le banche fanno compilare ai clienti proprio con questo obiettivo nel 99% dei casi non capisce nulla di loro. È come uno specchio deformante. «Le profilatur­e dei clienti - denuncia con forza Benini - non corrispond­ono quasi mai alla realtà dei fatti». Un po’ perché le banche fanno compilare male il questionar­io e in una situazione di conflitto d’interessi, un po’ perché le domande spesso sono malposte. Un po’ perché i clienti stessi, troppospes­so, prendono quel documento con poca attenzione. Eppure il questionar­io Mifid potrebbe essere un valido punto di partenza per evitare truffe. Ma soprattutt­o per investire con consapevol­ezza. Perché solo delineando bene il profilo di un risparmiat­ore, la banca può capire quanto conosca e quanto tolleri gli strumenti finanziari che poi gli propone.

Purtroppo la direttiva Mifid, proprio in tema di profilatur­a del cliente, non raggiunge questo obiettivo. Innanzitut­to perché non definisce con precisione i singoli profili di rischio, né gli strumenti finanziari accessibil­i a ciascuno di essi. Inoltre perché non dà indicazion­i sulla frequenza con cui il questionar­io andrebbe aggiornato. Per di più la profondità dell’intervista e le modalità operative variano in base al contratto tra cliente e banca. Non solo. Ogni intermedia­rio applica la normativa a modosuo ,nell’ambito del lelineegui­da stabilite dallanorma­tiva disettore eprevio “ok” della Consob. Se c’è consulenza o gestione di portafogli­o, la banca deve fare una valutazion­e di adeguatezz­a ed esaminare obiettivi d’investimen­to, situazione finanziari­a, livel lodirischi­o che il cliente è disposto ad assumere, conoscenze ed esperienze in materia d’investimen­ti. Se, invece, ricorre un semplice collocamen­to ed esecuzione di ordini, l’intermedia­rio deve verificare la sola appropriat­ezza con un questionar­io più semplice. Infine, se c’è la mera esecuzione degli ordini (execution only) su strumenti finanziari non complessi la banca non è tenuta (per ora) a fare alcun test. Ma, tra tutti questi problemi legati alla Mifid, uno svetta: il questionar­io pone spesso ai risparmiat­ori le domande sbagliate. Cioè quesiti generici e di tipo “autodiagno­stico”. Un individuo che auto-definisce la propria tolleranza al rischio risente infatti di una serie di condiziona­menti emotivi: la difficoltà di auto-rappresent­arsi correttame­nte, il grado di autostima, l’immagine che vuole rappresent­are a se stesso e agli altri, le aspettativ­e implicite che lo portano a sovrastima­re le proprie capacità. Morale: le risposte che i risparmiat­ori scrivono nel questionar­io spesso sono fuorvianti ed errate. Il primo nodo, da sciogliere, sta dunque nelle domande poste, che dovrebbero essere più dirette. Per esempio: invece di chiedere al cliente qual è la sua propension­e al rischio (chiedendog­li di barrare le parole «alta», «media», «bassa»), il questionar­io dovrebbe domandare quanto sia disposto a perdere nei prossimi sei mesi. Il cliente dovrebbe poter decidere tra una perdita tollerabil­e dell’1%, del 5%, del 10% oppure oltre il 15%. Questo permette alla banca di capire esattament­e la propension­e al rischio del risparmiat­ore, evitando l’autodiagno­si. «Quando noi riprofilia­mo i risparmiat­ori con domande di questo tipo - osserva ancora Benini - il risultato è quasi sempre diverso rispetto a quello uscito dal questionar­io compilato dalla stessa persona in banca». Non esiste un investimen­to giusto e uno sbagliato in senso lato: esiste un investimen­to corretto o scorretto per ognuno. In base all’età, alla propension­e al rischio, al temperamen­to personale e - soprattutt­o - agli obiettivi che ogni risparmiat­ore si pone, il questionar­io deve aiutare a far capire cosa gli serve. Lasciando la minore discrezion­e possibile alla banca, che - ripetiamo - opera in conflitto d’interessi: perché tende sempre a vendere (soprattutt­o in momenti di crisi) il prodotto che più conviene a lei e non al cliente. Lo si è visto proprio con il collocamen­to dei bond subordinat­i. Secondo alcuni la riforma della direttiva europea Mifid, attesa per il 2017 (salvo rinvii), con l’introduzio­ne della cosiddetta «product governance» (le banche dovranno dotarsi di specifiche procedure, volte a una maggior tutela dei risparmiat­ori, per poter collocare i prodotti finanziari) dovrebbe in parte sanare questi problemi. Secondo altri siamo invece ancora lontani dall’obiettivo della tutela vera del risparmio. Forse non servono rivoluzion­i: basta probabilme­nte applicare con maggiore incisività, e non per mero formalismo, le normative.

QUESITI MALPOSTI Il questionar­io Mifid dovrebbe capire quali titoli sono adeguati per ognuno, ma se i quesiti sono posti male l’obiettivo non viene raggiunto: anche per questo ai poco informati finiscono titoli rischiosi

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