Ecco perché in banca si sbaglia il nostro identikit
Il questionario che dovrebbe capire la conoscenza e la propensione al rischio dei risparmiatori raramente ci riesce
Cosa fa (o dovrebbe fare) un medico quando incontra un paziente per la prima volta? Dovrebbe chiedere la sua storia, se nella sua famiglia ci sono state malattie, se ci sono problemi ereditari, se fuma, se fa attività fisica e così via. Insomma: prima di fare una diagnosi, dovrebbe capire chi ha di fronte. Ebbene: il “medico” dei risparmi, cioè il consulente finanziario, deve fare la stessa cosa. Deve cioè capire chi si trova di fronte, quanta cultura finanziaria ha e - soprattutto - qual è la sua tolleranza al rischio. Solo dopo può suggerirgli come investire. Questo è il problema: secondo Nicola Benini di Ifa Consulting (consulente tecnico di vari Tribunali proprio su questa materia), il questionario Mifid che le banche fanno compilare ai clienti proprio con questo obiettivo nel 99% dei casi non capisce nulla di loro. È come uno specchio deformante. «Le profilature dei clienti - denuncia con forza Benini - non corrispondono quasi mai alla realtà dei fatti». Un po’ perché le banche fanno compilare male il questionario e in una situazione di conflitto d’interessi, un po’ perché le domande spesso sono malposte. Un po’ perché i clienti stessi, troppospesso, prendono quel documento con poca attenzione. Eppure il questionario Mifid potrebbe essere un valido punto di partenza per evitare truffe. Ma soprattutto per investire con consapevolezza. Perché solo delineando bene il profilo di un risparmiatore, la banca può capire quanto conosca e quanto tolleri gli strumenti finanziari che poi gli propone.
Purtroppo la direttiva Mifid, proprio in tema di profilatura del cliente, non raggiunge questo obiettivo. Innanzitutto perché non definisce con precisione i singoli profili di rischio, né gli strumenti finanziari accessibili a ciascuno di essi. Inoltre perché non dà indicazioni sulla frequenza con cui il questionario andrebbe aggiornato. Per di più la profondità dell’intervista e le modalità operative variano in base al contratto tra cliente e banca. Non solo. Ogni intermediario applica la normativa a modosuo ,nell’ambito del lelineeguida stabilite dallanormativa disettore eprevio “ok” della Consob. Se c’è consulenza o gestione di portafoglio, la banca deve fare una valutazione di adeguatezza ed esaminare obiettivi d’investimento, situazione finanziaria, livel lodirischio che il cliente è disposto ad assumere, conoscenze ed esperienze in materia d’investimenti. Se, invece, ricorre un semplice collocamento ed esecuzione di ordini, l’intermediario deve verificare la sola appropriatezza con un questionario più semplice. Infine, se c’è la mera esecuzione degli ordini (execution only) su strumenti finanziari non complessi la banca non è tenuta (per ora) a fare alcun test. Ma, tra tutti questi problemi legati alla Mifid, uno svetta: il questionario pone spesso ai risparmiatori le domande sbagliate. Cioè quesiti generici e di tipo “autodiagnostico”. Un individuo che auto-definisce la propria tolleranza al rischio risente infatti di una serie di condizionamenti emotivi: la difficoltà di auto-rappresentarsi correttamente, il grado di autostima, l’immagine che vuole rappresentare a se stesso e agli altri, le aspettative implicite che lo portano a sovrastimare le proprie capacità. Morale: le risposte che i risparmiatori scrivono nel questionario spesso sono fuorvianti ed errate. Il primo nodo, da sciogliere, sta dunque nelle domande poste, che dovrebbero essere più dirette. Per esempio: invece di chiedere al cliente qual è la sua propensione al rischio (chiedendogli di barrare le parole «alta», «media», «bassa»), il questionario dovrebbe domandare quanto sia disposto a perdere nei prossimi sei mesi. Il cliente dovrebbe poter decidere tra una perdita tollerabile dell’1%, del 5%, del 10% oppure oltre il 15%. Questo permette alla banca di capire esattamente la propensione al rischio del risparmiatore, evitando l’autodiagnosi. «Quando noi riprofiliamo i risparmiatori con domande di questo tipo - osserva ancora Benini - il risultato è quasi sempre diverso rispetto a quello uscito dal questionario compilato dalla stessa persona in banca». Non esiste un investimento giusto e uno sbagliato in senso lato: esiste un investimento corretto o scorretto per ognuno. In base all’età, alla propensione al rischio, al temperamento personale e - soprattutto - agli obiettivi che ogni risparmiatore si pone, il questionario deve aiutare a far capire cosa gli serve. Lasciando la minore discrezione possibile alla banca, che - ripetiamo - opera in conflitto d’interessi: perché tende sempre a vendere (soprattutto in momenti di crisi) il prodotto che più conviene a lei e non al cliente. Lo si è visto proprio con il collocamento dei bond subordinati. Secondo alcuni la riforma della direttiva europea Mifid, attesa per il 2017 (salvo rinvii), con l’introduzione della cosiddetta «product governance» (le banche dovranno dotarsi di specifiche procedure, volte a una maggior tutela dei risparmiatori, per poter collocare i prodotti finanziari) dovrebbe in parte sanare questi problemi. Secondo altri siamo invece ancora lontani dall’obiettivo della tutela vera del risparmio. Forse non servono rivoluzioni: basta probabilmente applicare con maggiore incisività, e non per mero formalismo, le normative.
QUESITI MALPOSTI Il questionario Mifid dovrebbe capire quali titoli sono adeguati per ognuno, ma se i quesiti sono posti male l’obiettivo non viene raggiunto: anche per questo ai poco informati finiscono titoli rischiosi