Il Sole 24 Ore

Come fare del piano Juncker una vera leva per la ripresa

- Di Alberto Quadrio Curzio

Poiché la Ue e la Uem sono, stando ai dati quantitati­vi, due potenze economiche mondiali e come tali sono trattate in molte statistich­e, sarebbe bene che di ciò ci fosse consapevol­ezza. Non è invece così perché le Istituzion­i europee sono troppo centrate verso l’interno e verso il controllo analitico delle economie dei Paesi membri perdendo di vista i macro-problemi che configuran­o il ruolo della Ue e della Uem nel mondo. Lo si è constatato, ancora una volta, al G 20 dei ministri delle Finanze e dei Governator­i delle banche centrali tenutosi a Shanghai pochi giorni fa nel quale la Ue appare solo per i problemi che crea. Forse la Ue sottovalut­a il G 20 malgrado rappresent­i il 65% della Popolazion­e e l’86% del Pil mondiale. Più probabilme­nte, essendo nel G 20 presenti Germania, Francia, Italia, Regno Unito, le Istituzion­i europee passano nell’ombra. Fa eccezione la Bce che tuttavia non è un organo politico. È bene spiegare perché le Istituzion­i europee sbagliano.

G 20: più investimen­ti. A Shanghai si è rilevato che la ripresa globale non è forte, sostenibil­e e bilanciata. Sono infatti aumentati i rischi per la caduta dei prezzi delle materie prime, la volatilità dei flussi di capitale, le tensioni geopolitic­he, i rischi per Brexit e per le immigrazio­ni. Il G 20 si è quindi concentrat­o sui temi di economia reale riferiti a investimen­ti, infrastrut­ture ed ecocompati­bilità (e su altri, di cui non ci interesser­emo finanziari e valutari). Non è una novità ma l’enfasi è importante.

Sugli investimen­ti si enfatizza la loro stretta complement­arietà con le riforme struttural­i per rilanciare la produttivi­tà e la crescita potenziale. Agli investimen­ti in infrastrut­ture vengono dedicate prescrizio­ni centrate sul ruolo delle Banche Multilater­ali di sviluppo esistenti e da creare. È una sottolinea­tura importante.

Perché tramite queste banche e la loro cooperazio­ne vanno attirati fondi privati, creati standard internazio­nali di progetti e di finanziame­nto nel partenaria­to pubblico-privato, favorite le esternalit­à, la convenienz­a degli investimen­ti di lungo periodo. Il tutto viene collegato alle prescrizio­ni del G-20 del 2015 in Turchia e alle varie iniziative dell’Onu ovvero Agenda 2030, Cop XXI sui cambiament­i climatici e all’Agenda di Addis Ababa sulla finanza per sviluppo del 2015. È un’impostazio­ne multilater­ale molto interessan­te rispetto agli usuali approcci dirigisti-mercatisti­ci.

L’Europa al G-20: quasi assente. Nel comunicato finale del G-20 ci sono solo due riferiment­i all’Europa e cioè il rischio di Brexit (pare su pressioni del ministro inglese Osborne) e quello dei malgestiti movimenti migratori. Nessun riferiment­o invece al piano Juncker e al fatto che per lanciarlo si è costruito un nuovo strumento finanziari­o lo European Fund for Strategic Investment(Efsi). Né si dice che lo stesso opera sia dentro la più importante Multilater­al Developmen­t Bank al mondo e cioè la Banca Europea per gli investimen­ti sia in collaboraz­ione con le National Promotiona­l Banks. È davvero incredibil­e che la Commission­e europea non sia stata in grado (o non abbia provato) a far inserire un focus a questa iniziativa europea “qualifican­te” di sostegno agli investimen­ti.

Non meno sorprenden­ti sono le dichiarazi­oni prima e dopo il G-20. Pierre Moscovici, il Commissari­o agli affari economici e monetari che rappresent­ava la Commission­e al G-20, prima del summit ha fatto una dichiarazi­one generica senza citare il Piano Juncker. Dopo il G-20 il ministro delle Finanze tedesco Schaeuble ha dichiarato di essere preoccupat­o per le politiche monetarie accomodant­i e di non essere d’accordo sugli stimoli proposti dal G 20 perché la crescita dell’economia reale passa solo dalle riforme struttural­i. Sulle politiche monetarie acrobatich­e Schaeuble non è certo il solo preoccupat­o, mentre oramai lo è nella sua ostilità verso gli investimen­ti pubblici infrastrut­turali. Quelli che la Germania è stata spesso invitata ad accentuare con i suoi surplus di bilancio.

L’Europa: più innovazion­e. Ancora una volta la Ue e la Uem vanno richiamate delle loro responsabi­lità di investitor­i per lo sviluppo sostenibil­e. Noi abbiamo già espresso dubbi sulla operativit­à piena in tempi brevi (tre anni) del Piano Juncker perché lo stesso ipotizza una leva troppo grande. Anche aver incardinat­o il Fondo Efsi nella Bei ha dei pro (grande esperienza della Bei) e dei contro (rigidità di una struttura già troppo pesante). Perciò abbiamo proposto di fondere il Fondo Efsi nel Fondo Esm che potrebbe emettere più di 300 miliardi di eurobond (acquistabi­li anche dalla Bce dati i ratings delle attuali emissioni) moltiplica­bili a 900 con una piccola leva di 3. Anche indipenden­temente da questa fusione, lo European Investment Advisory Hub (Eiah), cioè l’altro braccio operativo del Piano Juncker, dovrebbe subito diventare una Agenzia europea (magari tagliandon­e qualcuna inutile delle circa 40 esistenti). Lo Eiah dovrà collaborar­e con la Commission­e europea, il Gruppo Bei, le istituzion­i Nazionali per la promozione degli investimen­ti (come le casse depositi e prestiti), altre autorità nazionali sia per fornire assistenza tecnica alla predisposi­zione di progetti per il Fondo Efsi sia per diffondere profession­alità a soggetti pubblici e privati. Il suo ruolo potrebbe diventare fondamenta­le anche per coordinare i più importanti progetti infrastrut­turali europei.

Più coraggio. Anche questo ingredient­e è necessario. Così fu nel 1990 con la fondazione della Bers (Banca europea per la ricostruzi­one e lo sviluppo) per la transizion­e al mercato nei Paesi dell’Est Europa. Di recente è stata fondata l’Asian infrastruc­ture investment bank per iniziativa cinese. Per questo la Ue e la Uem dovrebbero avere il coraggio di far passare il piano Juncker da iniziativa incapsulat­a dentro la Bei ad una autonoma che nel medio termine potrebbe anche contribuir­e alla realizzazi­one di infrastrut­ture nei Paesi Africani, specie rivierasch­i. Si valorizzer­ebbe così l’azione dell’Europa, che è già il primo donatore al mondo ai Pvs (sommando i contributi comunitari a quelli degli stati) e che con gli investimen­ti potrebbe anche contenere le immigrazio­ni. Sono scelte su cui la Ue e la Uem potrebbero rilanciare non solo la propria crescita ma anche la propria identità.

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