Il Sole 24 Ore

«Terrorismo, l’Italia dice no al coprifuoco»

Orlando: nonostante l’innalzamen­to del livello di allerta, l’Italia ha scelto il rispetto di garanzie e diritti

- Di Donatella Stasio

«Non siamo in guerra, non ci sono stati strappi costituzio­nali e la missione in Libia non prefigura misure eccezional­i contro il terrorismo». Il ministro della Giustizia Andrea Orlando assicura che, nonostante l’innalzamen­to del livello di allerta, «la strada scelta dall’Italia non è il coprifuoco» ma «il rispetto delle garanzie e dei diritti fondamenta­li».

«Non si tratta di tatticismo», in ossequio alla prudenza raccomanda­ta da Renzi, spiega in questa intervista, ma di una scelta precisa, diversa dal «presunto pragmatism­o» imboccato da altri Paesi, «destinato al fallimento».

Signor ministro, la missione italiana in Libia significa che siamo in guerra? In queste ore c’è chi denuncia uno strappo alle regole in nome dell’emergenza, sia per la mancanza di un preliminar­e passaggio parlamenta­re sia per aver previsto che la missione sarà diretta dall’Aise, il servizio segreto della sicurezza interna che risponde al premier e non alla Difesa...

Non siamo un Paese in guerra. Per la guerra ci sono le procedure previste dalla Costituzio­ne. Il decreto presidenzi­ale sulla missione in Libia non configura un’azione militare e i poteri del premier sono quelli contenuti in una legge approvata dal Parlamento. Quella prevista è un’attività di sicurezza e prevenzion­e. Un nostro impegno diretto è possibile solo nel quadro di una decisione della comunità internazio­nale. Peraltro, dobbiamo sapere di essere entrati in una fase storica in cui le categorie di guerra e di pace sono più sfumate. Abbiamo una dimensione che unisce il fenomeno della guerra all'attività di terrorismo internazio­nale e questo fa sì che l'attività di intelligen­ce sia sempre più legata al monitoragg­io di ciò che avviene sui teatri di guerra veri e propri.

L’incipit dell’articolo 2 del decreto presidenzi­ale fa riferiment­o a «situazioni di crisi e di emergenza che richiedono l’attuazione di provvedime­nti eccezional­i e urgenti». È la premessa anche per eventuali leggi speciali contro il terrorismo, visto il contempora­neo innalzamen­to dell’allerta?

No. L’Italia ha agito in modo tempestivo, ben prima dei fatti di Parigi, con un decreto che ha superato i punti di debolezza del sistema, ampliando i poteri della Procura antiterror­ismo, individuan­do alcuni reati funzionali alla repression­e del terrorismo di matrice jihadista ed estendendo alcune attribuzio­ni dell’intelligen­ce. Credo che le contromisu­re giurisdizi­onali siano già state prese tutte. Semmai, si tratta di portare a compimento alcune azioni di carattere amministra­tivo, come lo scambio di informazio­ni, e di monitorare il fenomeno della radicalizz­azione in alcu- ni contesti, a partire dal carcere. Dico subito, però, che una normativa assunta solo in una dimensione nazionale avrà il respiro corto.

I migranti fuggono da Paesi che negano i diritti fondamenta­li ma si ritrovano in un’Europa che nega anch’essa quei diritti. Sullo sfondo c’è anche la paura del terrorismo...

Credo si debba riconoscer­e che l’Italia è sulla strada giusta, e ci si è messa prima di altri Paesi, perché tutte le altre strade sono percorse sulla base del presunto pragmatism­o ma sono destinate al fallimento. L’idea dei muri mette in moto meccanismi destabiliz­zanti anche per i Paesi che pensano di essersi messi al riparo. La vera domanda è: quando arriveremo a una politica comune? Tutte le altre strade si sono rivelate e si stanno rivelando fallimenta­ri. Ci sono Paesi che rischia- no di far esplodere di nuovo un’area stabilizza­ta da pochi anni come quella dei Balcani.

La Francia, dopo gli attentati di Parigi, ha scelto la via di un socialismo pragmatico, appunto, più attento alla sicurezza interna che alla tutela dei diritti. «Ne faisons pas de juridisme» ha detto il primo ministro al Parlamento, riducendo a legalismo il rispetto delle regole giuridiche, contrappon­endole alle esigenze di sicurezza dei cittadini. Possibile che le due cose siano in antitesi?

Bisogna trovarsi nella situazione che hanno vissuto i francesi per rispondere... anche se non mi convince molto la distinzion­e, penso utilizzata per fare i conti con un’opinione pubblica comprensib­ilmente terrorizza­ta.

Quindi, se noi fossimo attaccati, sarebbe tutta un’altra storia?

Non dico questo, anche perché noi non siamo in una situazione di tranquilli­tà. Dico che dobbiamo rispettare le loro decisioni, augurandoc­i di non trovarci nella stessa situazione di fortissima tensione e lacerazion­e. Dalla nostra abbiamo il passaggio storico della lotta al terrorismo interno e quella guerra è stata vinta restando nel perimetro della Costituzio­ne. Ed anzi, continuand­o a promuovere la sua attuazione legislativ­a.

«Resistere a volte vuol dire restare, altre volte andar via. Per dare l’ultima parola all’etica e al diritto» ha detto l’ex guardasigi­lli Christiane Taubira, dimettendo­si in polemica con le scelte di Holland, tra cui il tentativo di rendere permanenti le misure eccezional­i. Taubira era una che aveva le idee ben chiare sui diritti. Lei farebbe lo stesso?

Non lo so. Non credo sia semplice né opportuno giudicare le vicende interne di un Paese con cui cooperiamo nel contrasto al terrorismo. Detto questo, ho apprezzato molto il lavoro della Taubira e in questi due anni mi è capitato di trovarmi spesso su posizioni comuni in contrasto con quelle influenzat­e da populismo e xenofobia entrate anche nel dibattito dell’Unione europea.

Il filoso Ronald Dworkin diceva che il rispetto dei diritti umani non è un impiccio di cui liberarsi per placare la paura e riscuotere consensi ma è «la briscola», la carta vincente in ogni partita, anche quella sulla sicurezza. Il governo, tutto, si rispecchia, secondo lei, in questa metafora?

Il governo ha sensibilit­à diverse. Parlare di un’adesione collettiva a una visione filosofica è un azzardo. Però questa è la strada seguita fin qui. E l’abbiamo seguita fino in fondo.

Non è tatticismo, in ossequio alla prudenza raccomanda­ta da Renzi?

Non credo che la posizione di Renzi si limiti alla prudenza. La sua è stata l'unica voce fuori dal coro quando ha detto, dopo Parigi, «Per ogni euro speso per la sicurezza, un euro va speso per la cultura». Il messaggio è chiaro: non solo repression­e ma svuotament­o dei bacini in cui si nutre l’odio. E così ci siamo mossi e in parallelo ha preso vigore una stagione di rafforzame­nto delle garanzie. Mi piace contrappor­re la nostra azione, che tiene insieme sicurezza, rafforzame­nto delle garanzie e estensione dei diritti, a quella di altri Paesi: noi abbiamo chiuso gli Opg, abbiamo fatto la riforma della custodia cautelare, stiamo approvando quella sulle unioni civili ed è in atto la discussion­e sulla tortura. È una strada impopolare. Lega docet... Non lo so. Ma so che rinunciare a una cifra di libertà significa rinunciare alla libertà di tutti e che non bisogna piegarsi a una destra che ha imposto per anni un pensiero diverso. Non si tratta di essere impopolari o provocator­i ma di rovesciare un’impostazio­ne, perché può essere più convenient­e per tutti. Se il prezzo per una presunta sicurezza totale è avere città come quelle che controlla l’Isis, abbiamo regalato la vittoria all’Isis. Non credo che gli italiani apprezzere­bbero una vita regolata dal coprifuoco.

La tenuta di questa identità garantista del governo si misura anche su altri fronti, per esempio sul carcere. Gli Stati generali da lei indetti sono una grande sfida culturale per ridurre lo scarto tra diritti fondamenta­li e senso comune. Sempre che la montagna non partorisca un topolino...

Intanto arriviamo a questo grande appuntamen­to avendo fatto una serie di cose che lo giustifica­no, e cioè, progressi significat­ivi sul sovraffoll­amento e sviluppo altrettant­o significat­ivo delle misure alternativ­e. Ma, anche qui, non si tratta di sfidare l’impopolari­tà bensì di dire la verità, perché quando si parla di carcere non si va oltre gli slogan. Ricordo sempre che spendiamo 3 miliardi per il carcere ma abbiamo il più alto tasso di recidiva d’Europa. Il tema non è “carcere sì, carcere no” ma “quale carcere”, qual è la pena che fa uscire da un circuito nocivo per la tutela della sicurezza collettiva. È bene che si sappia che se le carceri sono un’università del crimine, il contribuen­te paga la formazione dei criminali.

Prima lei accennava alla radicalizz­azione dei terroristi in alcuni contesti, a cominciare dal carcere. Il carcere dei diritti avrebbe gli anticorpi contro la radicalizz­azione? E quali?

Il binomio è semplice: scrupoloso rispetto delle garanzie previste dalla legge, il che necessita di un costante controllo, e monitoragg­io sui fenomeni. Sono due elementi da tenere insieme. Nessun eccezional­ismo ma un controllo più stringente soprattutt­o nei bacini dove si ritiene sia più facile la radicalizz­azione. Che non sono solo quelli che hanno matrice nel fondamenta­lismo religioso.

Ministro, due domane fuori tema imposte da un’altra attualità: il nuovo falso in bilancio ha spaccato la Cassazione e andrà alle sezioni unite dopo appena sette mesi di vita. Colpa dei giudici o della qualità scadente della riforma?

Premesso che risolvere contrasti è il mestiere della Cassazione, la stagione delle norme nitide è finita. Le norme penali sono sempre più spesso frutto di mediazioni estenuanti, in particolar modo in un governo in cui le posizioni di partenza sono molto distanti. Non bisogna quindi stupirsi della ricerca di un punto di equilibrio, anche se non privo di difetti, ma, semmai, di avercela fatta.

Così, però, si scarica costanteme­nte sui giudici.

Credo sia un dato struttural­e delle società post moderne, caratteriz­zate dalla frammentaz­ione politica e, quindi, dall’esigenza di mediazioni. Questo lascia alle nostre spalle le grandi codificazi­oni e scarica sui giudici un ruolo sempre più importante, per cui il tema del “diritto vivente” diventa cruciale. Perciò condivido il grido d’allarme lanciato dal primo presidente della Cassazione Gianni Canzio.

Il 15 e 16 marzo lei presiederà a Parigi la Conferenza Ocse sulla corruzione. Ci andrà con una serie di misure adottate ma senza la riforma della prescrizio­ne, in passato considerat­a dall’Ocse una priorità. Come si giustifich­erà?

Vado a Parigi con una posizione solida perché, dopo gli inasprimen­ti di pena introdotti dalla Severino e poi da noi, credo che in Italia sia diventato improbabil­e far prescriver­e i reati di prescrizio­ne. Quindi la riforma è archiviata? No, ma rispetto alla corruzione si può dire che il numero di processi prescritti dopo i nuovi aumenti tendono allo zero.

OLTRE LA REPRESSION­E «Vanno svuotati i bacini dell’odio La nostra azione unisce sicurezza, rafforzame­nto delle garanzie ed estensione dei diritti» QUESTIONE MIGRANTI «L’Italia è sulla via giusta: l’idea dei muri mette in moto meccanismi destabiliz­zanti anche per i Paesi che si credono al riparo»

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Ministro della Giustizia nel governo Renzi
Andrea Orlando. Ministro della Giustizia nel governo Renzi

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