La lezione da imparare
AVicenza si volta pagina. La maratona assembleare si è conclusa nell’unico modo possibile: la trasformazione in Spa, la quotazione e l’aumento di capitale, per riportare i requisiti patrimoniali ai livelli richiesti dalla Bce. I soci hanno dimostrato di credere al piano di rilancio e soprat- tutto hanno capito che, come ha dichiarato l'amministratore delegato della banca al Sole-24 Ore del 4 marzo, non esiste un'alternativa.
Rimangono però sul terreno le macerie della passata gestione e alcuni pesanti interrogativi.
Isoci hanno dimostrato di credere al piano di rilancio e soprattutto hanno capito che, come ha dichiarato l’amministratore delegato della banca al Sole24 Ore del 4 marzo, non esiste un’alternativa.
Rimangono però sul terreno le macerie della passata gestione e alcuni pesanti interrogativi. Il primo riguarda la probabilità di successo dell’azione di rilancio. La situazione della banca è a dir poco delicata, non solo sul piano patrimoniale, ma anche su quello della gestione finanziaria ordinaria. Sul primo, le perdite degli ultimi due esercizi, oltre due miliardi, hanno lasciato un capitale di poco più di tre, che è inferiore alla voce di bilancio “sovrapprezzo azioni”. Il che significa che la banca ha bruciato tutto il patrimonio originario e i fondi accantonati dalla sua fondazione e ha capitale solo per effetto degli alti prezzi a cui sono state collocate le azioni negli ultimi anni. Se il capitale è il sangue della banca, come diceva Mattioli, è stato cavato a tanti azionisti, grandi e piccoli, che oggi pretendono giustamente che le responsabilità del disastro vengano rapidamente accertate.
Come se non bastasse, la banca ha perso nell’ultimo anno quasi nove miliardi di depositi, cioè la risorsa finanziaria essenziale per l’intermediazione tradizionale e quindi sarà costretta per un periodo non breve a ricorrere a fonti più onerose o alla stampella della Bce. E poiché, tanto per non farsi mancare nulla, anche i costi operativi sono alti rispetto ai ricavi (71 per cento di cost-income ratio, ben superiore alla media di sistema) il sentiero della redditività futura si presenta molto stretto e scivoloso.
La storia recente, non solo italiana (basti pensare alle casse spagnole o alle banche greche e portoghesi), ha già annoverato fin troppi episodi di sedicenti ristrutturazioni basate su previsioni eccessivamente ottimistiche. È quindi fondamentale che il management sappia dimostrare tutta la decisione necessaria per realizzare gli obiettivi annunciati. Dopo tanti episodi di crisi di banche locali (un’altra delle quali a un tiro di schioppo da Vicenza), è necessario dimostrare la vitalità del modello di business legato al territorio e alla realtà produttiva delle piccole e medie imprese che sono il patrimonio essenziale del nostro paese. Si parva licet, occorre che si ritrovi lo spirito del Piave (tanto per restare in Veneto) dopo Caporetto, che come hanno dimostrato ampiamente gli storici, non fu colpa di soldati codardi, ma di generali inetti.
Il secondo interrogativo riguarda il rapporto con la borsa. Solo adesso Banca Popolare di Vicenza approda al mercato ufficiale; per decenni (come Veneto Banca) ha goduto del privilegio di fare il mercato delle proprie azioni, fissando i prezzi di emissione e di riacquisto. Una condizione possibile alle popolari, ma che avrebbe potuto essere corretta o dalla legge (previsioni in questo senso erano state formulate fin dai tempi della Commissione Draghi per la preparazione del Testo unico della finanza, cioè nel 1998) oppure anche per impulso del regolatore e in particolare della Consob. Perché – piaccia o no – il mercato di quelle azioni non è stato un mercato regolare e ha consentito, come si ricorda nella durissima lettera della Bce, operazioni irregolari o addirittura illecite per spingere l’acquisto delle azioni.
Il terzo interrogativo riguarda in generale le crisi delle banche locali italiane, che sono ormai un campione significativo e inquietante. Come le famiglie di Anna Karenina, ogni banca infelice è infelice a modo suo. Non c’è una causa comune: non la struttura societaria (ci sono spa e popolari), non la zona di azione, non la dimensione (si va dal Monte dei Paschi a realtà minuscole), non la presenza di fondazioni (solo in alcuni casi). Il fil rouge di tutte queste crisi è invece il peggio del capitalismo di relazione e del provincialismo della società civile delle zone d’azione delle banche. Cioè una miscela di due ingredienti, ciascuno di per sé micidiale. È così che si spiegano le due cause di fondo che hanno messo in ginocchio le banche: scelte strategiche avventate ad imitazione dei grandi gruppi (quando non per piacere ad essi); mutui agli amici e agli amici degli amici.
Un elemento che lega tutte le banche che sono entrate in crisi è la sclerotizzazione del gruppo dirigente intorno ad un leader (si fa per dire) che è stato dominus incontrastato per decenni. È un fallimento clamoroso della corporate governance, perché un principio fondamentale della buona gestione prevede non solo un certo ricambio ai vertici, ma soprattutto che i consiglieri di amministrazione, i sindaci, i controllori di mercato (gatekeeper nella terminologia anglosassone) come le società di revisione e i consulenti (tutti ben remunerati) siano in grado di valutare criticamente le scelte del management e dissentire se del caso. Ma tutti costoro, anziché essere severi cani da guardia, come vorrebbe la teoria, si sono comportati, salvo qualche lodevole ed inutile eccezione, come festosi cagnolini da salotto.
Un’indagine sulle cause di fondo di tutte queste crisi sembra ormai opportuna. In primo luogo, perché questa brutta pagina della storia bancaria italiana non può essere scritta solo dalle procure, perché la verità giudiziaria è un conto, quella storica un altro. In secondo luogo, perché è ormai chiaro che occorrono regole più severe, sanzioni più efficaci e poteri più incisivi dei regolatori sul management. Oscar Wilde diceva che perdere un genitore è una disgrazia, perderne due è distrazione. Noi che abbiamo perso tante piccole banche dobbiamo essere molto distratti. Almeno dobbiamo trarne una grande lezione.