Un’epidemia di suicidi
In «David è morto» i Babilonia Teatri raccontano l’epopea di un’autodistruzione familiare. Una pièce metaforica e matura
In Due donne che ballano del catalano Josep Benet i Jornet, recentemente allestito da Veronica Cruciani con Maria Paiato e Arianna Scommegna, un’anziana signora e la sua badante pongono termine alla propria vita ingerendo insieme un’overdose di farmaci. In Per strada di Francesco Brandi, realizzato tempo fa al Franco Parenti da Raphael Tobia Vogel, c’è un giovane che va in giro fornito di un kit per spararsi, e un altro che alla fine lo usa davvero al suo posto. In Animali da bar della compagnia Carrozzeria Orfeo c’è un rapinatore depresso che continua invano a tagliarsi le vene, e un invisibile vecchio che supplica di essere aiutato ad andarsene.
In David è morto dei Babilonia Teatri sono addirittura cinque i personaggi che si danno volontariamente la morte, e rievocano in varie chiavi le circostanze che li hanno indotti a farlo. C’è un’epidemia di suicidi che sembra stia attraversando, più o meno sotterraneamente, i palcoscenici italiani. E l’aspetto più significativo è che, ad accomunare queste proposte, l’ipotesi dell’auto- distruzione non viene in genere affrontata come l’esito di un gesto irrazionale, disperato, ma come un’opzione culturale, un’autonoma scelta di pensiero. Potrebbe essere un fatto casuale, ma forse invece è il segnale di un più profondo malessere che affligge la nostra società.
David è morto parte dal racconto di un ragazzo, David, appunto, che – per dirla breve - una mattina si pianta un punteruolo nel cuore per fare dispetto al padre. Prende poi la parola sua sorella, una soldatessa cacciata dalla caserma per essersi fatta tutti i commilitoni rifiutando però le avance del maresciallo, che si impicca dopo avere dipinto col sangue le pareti del garage. Seguono quindi la madre e il padre, schiacciati dal peso del proprio fallimento, e infine Alex, il cantante pop che voleva risolvere la propria una lunga crisi creativa celebrando in un disco la morte di David.
Coi temi del lutto, del trapasso i Babilonia si erano già cimentati nel bellissimo The end. In questa nuova creazione, tuttavia, i personaggi muoiono, ma non c’è l’orrore della morte, lo strazio, il pianto. L’orrore della morte è anzi paradossalmente sottaciuto, reso allusivo, trasversale. Lo spettacolo, prodotto dallo Stabile del Veneto e da Emilia Romagna Teatro, è asciutto, meno beffardamente deflagrante dei precedenti e dotato invece di una scrittura più matura e raffinata: una scrittura dal tratto eminentemente poetico, non perché rinunci alla solita durezza, ma perché affronta la materia in una forma metaforica, la prende da fuori, da lontano.
Ciò che caratterizza il denso testo di Enrico Castellani è il continuo intrecciarsi di queste tragedie i ndividuali - tragedie grottesche, evocate lividamente – con le futili mode, coi vezzi linguistici, col vacuo consumismo di una provincia ormai del tutto standardizzata. Più che di un’ango- scia che spinge al suicidio, qui si parla di un profumo di Dolce & Gabbana, di “Abbracci” del Mulino Bianco, di fascicoli De Agostini. L’azione, non a caso, si svolge sotto un unico arredo scenico, un enorme cuore rosso da pubblicità dei cioccolatini, e tutti i morti sono pronti a inscenare un macabro concerto rock.
I materassi di lattice ( « Un lattice puro bisogna aspirarlo spesso. Girarlo spesso. Fargli prendere spesso aria. Meglio un lattice innestato con l’acqua. Glielo garantisco io » ) , i panettoni Motta senza canditi, i clown-dottori: ognuna di queste espressioni del nostro tempo sembra assumere un rilievo un po’ mostruoso, una sorta di vita propria a scapito della vita dei soggetti che se ne fanno condizionare, che ne restano per così dire stranamente disumanizzati. È difficile dire se siano la causa di quelle morti, o solo lo sfondo in cui esse avvengono. Certo diventano una cartina di tornasole, il riflesso speculare di una condizione di disagio.
Il copione ha lampi di rara forza visionaria, come il brano in cui tutto il sapere umano è ridotto a un vuoto elenco di nozioni scolastiche, o quello in cui il padre descrive la terra come una distesa di lapidi di marmo. Il monologo del cantante che odia i clown- dottori è degno della ferocia di Rodrigo Garcìa, il grande provocatore del teatro europeo, forse ora rientrato nei ranghi. E ferocissimi, nella scarna messinscena, sono i momenti in cui la sorella dispone sul petto di David, all’altezza del cuore, due pezzi incrociati di nastro adesivo rosso, o in cui calano dall’alto due enormi fiocchi, uno azzurro e uno rosa, equiparando crudelmente la nascita e la fine.
In questa che è una delle loro prove più alte i due autori, Valeria Raimondi e Castellani, non sono alla ribalta, ma i cinque attori selezionati attraverso video postati su Facebook ne ricalcano fedelmente l’incalzante stile rap. Sono bravi Filippo Quezel (David), Emiliano Brioschi (il cantante), Alessio Piazza (il padre), Emanuela Villagrossi ( la madre). Ma su tutti si impone Chiara Bersani, la sorella, una performer disabile col corpo deformato da una grave patologia ossea, in grado di muoversi solo in sedia a rotelle, ma capace di sfoggiare un’inusitata potenza fisica e vocale. Memorabile la sua apparizione iniziale su un’incongrua jeep giocattolo.
David è morto , di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, visto all’Arena del Sole di Bologna. Repliche il 5 e 6 luglio al Napoli Teatro Festival