Il cielo fuori dalla Stanza
Venire al mondo, si dice pensando alla nascita. Ed è come se il mondo fosse lì ad aspettarci, e a noi bastasse varcarne la soglia. Succede invece che, quando si viene al mondo, il mondo ancora non esista – che non esista il mondo per noi, il mondo nostro –, e che ci serva qualcuno che ci porti al mondo, aiutandoci nel mestiere difficile di costruirlo, parola dopo parola, significato dopo significato. Attorno a questa suggestione si sviluppa Room (Irlanda e Canada, 2015, 118’).
È un thriller e insieme è più di un thriller, il film che Lenny Abrahamson e la sceneggiatrice Emma Donoghue hanno tratto da un racconto ispirato alla stessa Donoghue da un fatto tragico. Nel 2008, questo è il fatto, Elisabeth Fritzl viene trovata dalla polizia di una città austriaca nella cantina in cui il padre la tiene rinchiusa da ventiquattro anni. Con lei ci sono quattro dei sette figli avuti a seguito degli stupri subiti (il padre è riuscito ad adottare gli altri, portandoli a vivere con lui e con la moglie). In Room la cantina diventa un capanno, gli anni di prigionia scendono a sette, e invece del padre incestuoso c’è “solo” un violentatore, detto Old Nick (Sean Bridgers). Quanto alla vittima, la conosciamo come Ma’ (Brie Larson). Così la chiama il piccolo Jack (Jacob Tremblay). Da quando è nato, cinque anni fa, Jack non ha visto altro che l’angustia della sua prigione. A illuminarla c’è un lucernario alto e irraggiungibile, unica misura del passaggio dei giorni e delle notti. Jack lo chiama Lucernario, così come Stanza è l’interno del capanno. Per lui, l’uno e l’altro non sono semplici oggetti, ma quasi persone, coprotagonisti della sua breve storia di vita, come Tavolo, Sedia, Armadio…
È questo il mondo di Jack. I suoi confini danno sul niente. Niente infatti il bambino ha mai visto al di là dei quattro muri scrostati, a parte lo scorcio di cielo che occhieggia da Lucernario, e a parte la misteriosa realtà a due dimensioni che si muove sullo schermo televisivo. Eppure, Jack ha davvero un mondo. Nel “microtutto” che lo avvolge e chiude, ha imparato a conoscersi, e a riconoscersi. Ci è riuscito, in quella prigione senza specchi, rispecchiandosi nell’amore e nell’intelligenza di Ma’. È lei che lo ha portato al mondo, prima nella sua carne e poi insegnandogli a giocare con parole e significati, perché se ne facesse padrone. Più della violenza di Old Nick, più della sua feroce anestesia emotiva, al centro dell’attenzione di Abrahamson e Donoghue ci sono il coraggio, la cura e la tenerezza di Ma’. Questo fa del loro film ben più di un thriller.
Poi, a metà racconto – con uno stratagemma rischioso, ottimamente girato e montato – Jack e Ma’ fuggono dalla loro prigione. Ora sono liberi. Meglio, ora devono imparare a essere liberi nella vastità di un mondo che non è mai stato del figlio, e che da troppo tempo non è più della madre. Jack ha ancora bisogno di aiuto. Gli servono altre parole, altri significati, altri giochi. Impaurito da un fuori inatteso e sorprendente, di nuovo gli tocca imparare a conoscersi e a riconoscersi. Ma non è sua la paura maggiore. Alla fine, per lui non si tratta che di rielaborare il “macrotutto” sconfinato della sua nuova condizione facendosi forte di quanto la madre gli ha insegnato nel chiuso di Stanza.
È Ma’ che ha più paura, invece. Il suo coraggio si è consumato, come la sua cura e la sua tenerezza. Queste e quello si sono persi nel vuoto di una libertà senza limiti, presto trasformata in angoscia. Sette anni fa la sua storia di vita si è spezzata, non solo interrotta. Insieme si è spezzato il suo mondo, diventato buio e angusto come la prigione di Old Nick. Certo, fra quei muri scrostati ha dato la vita al figlio non una, ma due volte. E si direbbe proprio questo il motivo per cui ora, doppiamente sgravata, si sente doppiamente svuotata. Potrà mai vincere la paura, tornando a conoscersi e a riconoscersi? La risposta è affidata al piccolo Jack, alla sua luminosa capacità di prendere la madre per mano, e riportarla al mondo. %%%%%