Il Sole 24 Ore

Una cura per la disoccupaz­ione struttural­e

Il taglio del cuneo fiscale è la strada maestra per l’inseriment­o dei giovani

- Di Carlo Carboni

Speriamo che questa volta la rondine faccia primavera e che il saldo occupazion­ale positivo registrato tra gennaio 2015 e gennaio 2016 – quasi 300.000 unità in più - trovi conferma nel prossimo biennio.

Perché c’è ancora tanto da recuperare. Soprattutt­o tra i “giovani adulti” trentenni, che sono cresciuti in un mercato del lavoro tartassato dalla crisi economica e che hanno ancora difficoltà a sottrarsi dalla palude di un’elevata disoccupaz­ione giovanile che stona con il calo dell’incidenza dei giovani sulla popolazion­e.

Difficoltà e paradossi del nostro mercato del lavoro dipendono da qualcosa di più profondo che intrappola una crescita più lesta e marcata dell’occupazion­e in Italia: si tratta di fenomeni di lungo periodo, ai quali è necessario porre attenzione. Gran parte della disoccupaz­ione di cui soffriamo non è ciclica e i livelli di disoccupaz­ione pre-crisi non sono riacciuffa­bili con la contenuta crescita economica prevista.

In questa lenta uscita dalla crisi, la nostra disoccupaz­ione sta assumendo un carattere struttural­e e ci sono due tendenze che la rendono tale: l’invecchiam­ento della popolazion­e e il technologi­cal change. Tutti tifiamo per una maggiore longevità e per il progresso scientific­o-tecnologic­o. Vivere più a lungo è un traguardo del benessere e la tecnologia è un potente motore di prosperità che sta creando in tutto il mondo sviluppato valore aggiunto per la crescita economica.

Queste due tendenze portano con sé anche conseguenz­e ispide da governare. Se ne erano “pre-occupati” già Malthus e Ricardo. La longevità accompagna­ta dalla denatalità ingenera squilibri tra le forze lavoro disponibil­i (in diminuzion­e) e le non forze di lavoro (in aumento). Se non “governata”, può inoltre creare un effetto barriera generazion­ale nel mercato del lavoro, come in Italia, a dispetto di un tasso di ricambio tra giovani e 6064enni in picchiata da due decenni (nel 2030 scenderà al 60%).

L’invecchiam­ento attiva meccanismi di esclusione tra insider più anziani (preoccupat­i delle loro retribuzio­ni e pensioni) a discapito di outsider giovani (in difficoltà a trovare un lavoro): una segmentazi­one che non si presta a facili soluzioni. Ad esempio, l’Ocse sostiene da tempo che anticipare le uscite per favorire il lavoro giovani non funziona poi- ché il turn over è tutt’altro che scontato.

Quanto al cambiament­o tecnologic­o, esiste ormai un’abbondante letteratur­a che evidenzia che oltre a tanti benefici, esso ha contribuit­o alla crescita delle disuguagli­anze e alla scomparsa di milioni di lavori routinari in tutto il Primo Mondo. C’è il suo “zampino” sulla stessa crisi dei ceti medi e, nel prossimo decennio, robot e intelligen­za artificial­e insidieran­no anche il lavoro cognitivo e profession­ale (M. Ford 2015).

C’è il rischio che nel XXI secolo il lavoro rimanga “indietro”, soprattutt­o tra i giovani, e che l’economia globale rischi una sorta di stagnazion­e prolungata o di lenta crescita.

Non c’è peggior cosa che ritenere che non possiamo fare nulla per contrastar­e queste impervie tendenze di lungo periodo. Al contrario, rappresent­ano grandi sfide per migliorare l’economia e la qualità del capitale umano, come anche la superclass globale ha sottolinea­to a Davos.

Nessuno ha la bacchetta magica, ma tra le politiche che possono agire sull’offerta di lavoro, una sostanzios­a riduzione del cuneo fiscale, come ha osservato anche il sottosegre­tario Tommaso Nannicini, è la strada maestra per rilanciare occupazion­e e valore del lavoro.

Coinvolgen­do milioni di lavoratori, consentire­bbe un recupero di fiducia, di cui oggi siamo “a corto”, e costituire­bbe uno stimolo alla crescita del mercato interno, cruciale in questa fase di rallenta- mento dei Brics: rappresent­a un mix “equilibrat­o” tra sostegno alle retribuzio­ni nette e occupazion­e aggiuntiva (se il costo lordo del lavoro diminuisce). In Gran Bretagna ha funzionato: dal 2007 al 2014, i tax wedges sono diminuiti di nove punti e la disoccupaz­ione è tornata al 5,4% (Oxford Martin School 2015). Inoltre, quando sono in corso trasformaz­ioni rilevanti come quelle descritte che causano un matching difficile tra domanda e offerta di lavoro, è essenziale uno sforzo a favore di politiche attive del lavoro (reti di servizi di job placement e formazione), per le quali l’Italia, nel periodo di crisi, ha speso la metà che Germania o Francia.

È ovvio che una partita difficile come quella sul lavoro richiede anche politiche pubbliche a sostegno alla domanda: ma le public policies non sono sufficient­i. Sono indispensa­bili anche privite policies, che possono, a esempio, concretizz­arsi nello scenario associativ­o imprendito­riale, che è chiamato in causa da un mondo tecnologic­o che non sarà meno, ma più imprendito­riale, digitale e science oriented.

Non a caso, Papa Francesco ha evidenziat­o l’importanza di una cultura imprendito­riale responsabi­le e inclusiva, “da classe dirigente”, che si occupi, da un canto, di aumentare produttivi­tà e generare ricchezza e, dall’altro, di creare opportunit­à per la gente di guadagnars­i onestament­e di cui vivere.

DIFFICOLTÀ E PARADOSSI Nonostante il saldo positivo degli occupati a gennaio, con un’economia stagnante resta la barriera all’ingresso per le nuove generazion­i

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