Il Sole 24 Ore

L’anticorruz­ione e la mala pianta della «furbizia»

- Di Lionello Mancini ext. lmancini@ ilsole24or­e. com

Chi ha paura dell’anticorruz­ione? I corrotti, ovvio. I quali, mai rinunciand­o a predicare bene, tramano per vanificare ogni iniziativa che insidi la possibilit­à di lucrare nella penombra e nell’intrico normativo. Sordi a ogni moral suasion (in quanto privi di moral) i corrotti si piegano solo con le maniere forti: indagini, manette, condanne. Purtroppo, però, questa nutrita banda può contare su un ampio bacino di fiancheggi­atori, emuli e ammiratori che li favoriscon­o tacendo, votandoli e adattandos­i a pagare il conto di pessimi servizi a costi maggiorati. Ecco perché continuano a incontrare ostacoli le persone, gli enti, le imprese pubbliche e private, intenziona­ti a esplorare sentieri nuovi e sostenibil­i nell’italica palude dell’etica smarrita. Ostacoli diversi, che rallentano l’adozione degli strumenti di prevenzion­e e contrasto necessari e ormai urgenti per arginare il malcostume.

È di soli pochi giorni fa l’allarme dell’Anac per la scarsità di risorse utilizzabi­li, nonostante gli impegni sempre più numerosi che le vengono assegnati e per i quali si pretendono rapidità e precisione d’intervento. Un film visto e rivisto. La stessa Autorità affidata a Raffaele Cantone è nata con grande ritardo, dopo un balletto durato anni, che ha prodotto finte strutture e inutili relazioni. Idem per la legge 190/ 2012, la prima vera normativa anticorruz­ione, varata dal governo Monti in un momento di quasi tracollo del Paese: i primi a criticarla e a tentare di schivarla sono le stesse forze politiche che mai ne hanno prodotta una e nelle cui file accolgono corrotti e corruttori «messi in salvo» dalla «furia» della «magistratu­ra politicizz­ata» (le virgolette non indicano sintesi forzose, ma testuali parole dei leader di partito).

Si potrebbero proporre riflession­i analoghe per la mancata legge sulle lobby, altra casella lasciata ostinatame­nte vuota, con la bizzarra motivazion­e che «l’Italia non è l’Unione sovietica, dove lo Stato controlla tutto», fingendo di non capire che un’anticorruz­ione solida – in vigore da oltre 20 anni in primari Paesi membri della Ue – non può che fondarsi su un grado di trasparenz­a, compresi un elenco pubblico di lobbyisti e registri in cui è tracciato ogni incontro tra i legittimi portatori di interessi privati e i politici. Non è difficile e nemmeno tanto sovietico.

Contrari a far sul serio si mostrano a volte gli stessi sindacati, anteponend­o interessi di bottega alla caccia ai corrotti nella nostra Pa – che dovrebbe essere da tempo senza quartiere – intralcian­do nei fatti la revisione delle piante organiche, i sistemi di controllo delle presenze e della produttivi­tà, fino a obiettare sulle rotazioni degli incarichi e sull’introduzio­ne delle innovazion­i che, pure, facilitere­bbero la vita di tutti. Ostacoli inaccettab­ili, incrostazi­oni corporativ­e che producono sia i timbratori in mutande sia i tecnici infedeli, così difficili da licenziare.

Altrettant­o sconsolant­i le diffidenze verso strumenti già rodati (altrove), come il whistleblo­wing o l’utilizzo di agenti sotto copertura. È vero: esistono difficoltà oggettive a “innestare” regole importate dalla common law nel nostro ordinament­o che, ad esempio, non garantisce l’anonimato al dipendente che denunci un illecito; altrettant­o difficile è autorizzar­e un poliziotto a offrire mazzette per testare il grado di onestà del politico o dell’impiegato. Difficoltà cui può provvedere solo il Parlamento, ma all’alto rischio di leggi arruffate e perciò inapplicab­ili, si aggiunge un insidioso fiorire di dotte riflession­i su presunti rischi del whistleblo­wing per la serenità dei rapporti tra colleghi, su quanto sia disdicevol­e incentivar­e le “delazioni” dando così fiato a interessat­e calunnie, sugli abusi cui le forze dell’ordine si abbandoner­ebbero se autorizzat­e a non dichiarars­i.

Sarebbe facile ironizzare sulla qualità di simili suggestion­i, se queste non fossero così utili a quanti aborrono l’anticorruz­ione e tanto radicate nella cultura profonda del Paese di furbi. E se fosse un po’ meno diffusa questa epidemia da cui l’Italia non sa o non vuole guarire.

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