Il primo stop all’uso
Il 26 maggio dell’anno scorso la Cassazione aveva escluso la possibilità di usare come prova le “intercettazioni ambientali” tramite Trojan, anche nei procedimenti di criminalità organizzata, perché troppo invasive della riservatezza loro illiceità e, quindi, inutilizzabilità. Insomma, una barriera, persino nelle indagini su criminalità organizzata e terrorismo, sebbene per questa tipologia di reati esista il cosiddetto “doppio binario” (paletti meno rigidi rispetto ai reati comuni).
A un processo di mafia si riferisce anche la diversa decisione della Corte del 10 marzo scorso. In quell’udienza, l’Avvocato generale Nello Rossi ha messo in discussione l’interpretazione del 2015 là dove colloca il Trojan nella “categoria” delle “intercettazioni ambientali” mentre avrebbe dovuto dare rilievo al fatto che la legge parla solo di intercettazioni «tra presenti», senza alcun riferimento ai luoghi, salvo il caso dell’articolo 614 Cp, ovvero i luoghi di «privata dimora», dove l’intercettazione è consentita solo se lì si stia svolgendo un’attività criminosa (limite peraltro non previsto per la criminalità organizzata). Pertanto, secondo Rossi, poiché l’intercettazione “tra presenti” non richiede l’indicazione preventiva dei luoghi, quella effettuata mediante virus intrusivo su smartphone o tablet può ben essere autorizzata sia per la generalità dei luoghi sia per il domicilio del portatore dell’apparecchio. Il collegio della VI sezione (presidente Domenico Carcano, relatore Giorgio Fidelbo) ha probabilmente condiviso quest’impostazione (i motivi si conosceranno con il deposito dell’ordinanza), ovvero la possibilità di usare il Trojan, con valore probatorio, senza indicazione preventiva dei luoghi. Ora la parola passa alle sezioni unite.