Cascini: «Utile una norma sull’intrusione informatica»
p «Oggi quasi tutto viaggia sulla rete. Con le intercettazioni telefoniche prendiamo solo il 10%, con il Trojan prendiamo il 100%. Basti pensare che, con un Ipad, da casa si può pianificare un attentato...». Giuseppe Cascini, Pm romano titolare dell’inchiesta Mafia capitale, non può che essere contento del ripensamento della Cassazione sull’uso del Trojan, anche se aspetta le sezioni unite per capire se e fino a che punto le comunicazioni captate con questo strumento saranno utilizzabili come prova. «Certo, è uno strumento fortemente invasivo, perché consente di conoscere la vita intera di una persona - ammette - ma rinunciare alla tecnologia in nome della privacy sarebbe un grave errore. Sia nel contrasto al terrorismo sia per alcuni reati comuni, come la corruzione».
La prospettiva di sfruttare le potenzialità del Trojan fa gola a pm e polizia ma anche ai servizi segreti. I quali potrebbero controllare il bersaglio “perquisendo” a distanza ogni tipo di dispositivo connesso alla rete, del quale sia in possesso. Già ne fanno uso, ancorché limitato: le intercettazioni preventive vanno autorizzate dal Procuratore generale della Corte d’appello, durano 40 giorni più 40 e non sono mai utilizzabili come prova. Il Trojan costa (circa 200 euro al giorno) e impone una speciale professionalità e integrità morale in chi lo maneggia, ma consentirebbe di mettersi al passo con le intelligence straniere che utilizzano abitualmente sistemi invasivi per “rastrellare” stock di metadati, ovvero l’insieme di informazioni che identi- ficano chi c’è dietro un computer o uno smartphone, cosa sta comunicando e dove si trova.
Polizia giudiziaria e pm lo usano, talvolta, anche per reati “comuni”, come la corruzione. Naturalmente, con i limiti finora esistenti. Il Trojan, spiega Cascini, consente di acquisire tutte le informazioni contenute in un pc, anche se solo le “comunicazioni” sono utilizzabili. Se, ad esempio, l’intercettato frequenta alcuni siti internet, questo materiale, pur rilevante per le indagini, non è tecnicamente un’intercettazione e quindi non può essere utilizzato come prova, se non passando per la perquisizione e per il sequestro del pc (che però hanno lo svantaggio di essere comunicati all’interessato).
Secondo Cascini, sarebbe utile prevedere una norma sulla «intrusione informatica» (mediante virus) per alcuni reati. Detto questo, «la sentenza della Corte del 2015 era sbagliata» anzitutto perché riguardava la criminalità organizzata, reato che consente le intercettazioni «tra presenti» in qualunque luogo; ma anche perché consentiva l’intercettazione solo previa individuazione di un luogo preciso, escludendo le captazioni “volanti”, laddove l’articolo 266 parla solo di intercettazioni «tra presenti». «Una volta – racconta – ho chiesto di intercettare un indagato per corruzione che aveva l’abitudine di darsi appuntamento con i corrotti nei bar e ho ottenuto un decreto di intercettazione “aperto”. Giustamente, perché io non intercetto il luogo, ma la persona. L’unico limite che può stabilire il giudice è che si intercettino solo conversazioni di cui è parte l’indagato».
Il problema dell’invasività del Trojan non si risolve tanto creando una regola giuridica sul suo utilizzo quanto «con indicazioni del giudice su che cosa ci si può fare, soprattutto nei processi di criminalità comune. Ad esempio, prevedendo espressamente la sua disattivazione nei luoghi di privata dimora. La paura di queste tecnologie non deve spingerci a non usarle, ma semmai a introdurre limiti più rigorosi, onde evitarne uso indiscriminato e costi eccessivi».
IL FILTRO SULLA RETE «Con le intercettazioni prendiamo solo il 10%, con il Trojan, il 100%. Strumento invasivo ma rinunciare alla tecnologia sarebbe un errore»