Il Sole 24 Ore

Quanto è difficile per Pechino stabilizza­re il tasso di cambio

- Di Carmen Reinhart

Ipolicy maker cinesi stanno cercando di porre rimedio ai mali che affliggono la loro economia e al tempo stesso stanno perseguend­o due obiettivi che quasi sicurament­e si rivelerann­o incompatib­ili. È molto raro che le banche centrali riescano a mantenere un tasso di cambio fisso per un lungo periodo, fornendo al contempo liquidità alle banche in difficoltà e all’economia sofferente. Il compito è particolar­mente arduo quando la penuria monetaria necessaria a sostenere la valuta si ripercuote pesantemen­te sulle banche nazionali e sull’economia reale già abbastanza provate.

Chi sta cercando di delineare uno scenario di massima sul futuro dell’economia cinese farebbe bene a ricordare quanto accadde in Thailandia nel 1997, quando il crollo del Baht scatenò la crisi finanziari­a asiatica. Naturalmen­te, per molti aspetti la Cina del 2016 è diversa dalla Thailandia del 1997, ma vi sono delle analogie di fondo nelle loro reazioni alle continue fughe di capitale.

Dopo un prolungato boom del credito, le banche commercial­i si sono trovate con un volume crescente di prestiti in sofferenza. La risposta naturale della politica monetaria è aumentare la liquidità, abbassare i tassi di interesse e, in molti casi, fornire assistenza diretta sotto forma di prestiti dalla banca centrale, ed è esattament­e quello che è stato fatto, per esempio, nelle economie avanzate dopo la crisi finanziari­a del 2008.

Ma abbassare i tassi di interesse e allentare le condizioni monetarie per sostenere il tasso di cambio non è assennato quando manca la fiducia nei confronti della valuta e dell’economia, gli investitor­i stranieri stanno portando via il denaro e i cinesi stanno cercando di fare altrettant­o. Non importa quanto questa policy posso essere giustifica­ta per altri aspetti, il risultato in tali circostanz­e è quasi sempre la fuga di capitale e una crescente erosione delle riserve.

La Storia ci dimostra che quando un’economia comincia ad arrancare, per le banche centrali è estremamen­te difficile resistere alle richieste di intervento nazionali e questo vale in particolar modo quando l’emergenza dei problemi bancari sistemici ha bisogno del sostegno di un prestatore di ultima istanza. Nel nostro studio, io e Graciela Kaminsky della George Washington University abbiamo evidenziat­o come, con la liberalizz­azione e l’integrazio­ne globale dei mercati finanziari, i problemi del settore bancario abbiano sistematic­amente preparato il terreno agli shock valutari.

Sicurament­e, i controlli sui capitali pos- sono far guadagnare tempo, quanto tempo dipende da come sono concepiti, con quanto zelo vengono applicati e da altri accordi istituzion­ali. Nel 1997 la Thailandia introdusse dei controlli sulle fughe di denaro e all’inizio di quest’anno la Cina ha dato un giro di vite ai controlli. Analogamen­te, un tesoretto consistent­e può aiutare a tamponare la crisi per un po’.

Ma prendere tempo non significa invertire il trend. Le riserve estere della People’s Bank of China hanno raggiunto il picco nel 2014, dopodiché sono diminuite del 20%.

Dal 2003 al 2012, molte banche centrali, compresa quella cinese, si sono abituate a gestire grandi entrate di capitale per impedire che le loro valute si apprezzass­ero, hanno acquistato dollari (accumuland­o così riserve di valuta) e hanno compensato gli effetti espansioni­stici dell’accumulo di riserve restringen­do, tra le varie cose, i requisiti di riserva delle banche commercial­i. La conseguenz­a di tale politica è stata che il rapporto delle riserve estere cinesi con la moneta (M2) è aumentato in modo spettacola­re, ed è grosso modo raddoppiat­o fra il 2003 e il 2008.

Dal 2008, tuttavia, gran parte della policy cinese di stimolo per far fronte alla crisi finanziari­a globale ha assunto la forma di una politica monetaria e creditizia molto espansioni­sta. Di conseguenz­a, la crescita monetaria ha superato l’accumulo delle riserve tra il 2008 e il 2014.

L’espansione monetaria è continuata fino al 2014, anche se le riserve valutarie sono diminuite. Se guardiamo al rapporto riserve/moneta, l’inversione è ancora più netta di quanto suggerito consideran­do solamente i dati sulle riserve. Infatti, il rapporto è sceso ai livelli del 2003. Dato che la porzione di debito corporate cinese in dollari americani, per quanto bassa rispetto agli standard internazio­nali, è aumentata in modo significat­ivo negli ultimi anni, il rapporto riserve/moneta può essere altrettant­o rivelatore del dato sulle riserve di 3,2 trilioni di dollari.

L’impegno della Cina per mantenere stabile il tasso di cambio sembra essere incompatib­ile con la recente svolta verso politiche monetarie più accomodant­i. Gli sforzi per evitare le fughe di capitale spesso finiscono male. Se la People’s Bank of China vuole dare priorità alla stabilità finanziari­a e impegnarsi per incarnare il suo ruolo di prestatore di ultima istanza, dovrebbe accettare che la svalutazio­ne è inevitabil­e, prima di erodere le proprie riserve in valuta. La Cina farebbe meglio a lasciare fluttuare lo yuan, anziché aspettare che una crisi di fiducia conclamata forzi la mano.

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