Il Sole 24 Ore

Dollaro, i mercati scommetton­o sulla Fed

Gli operatori guardano alla possibile stretta di primavera della Yellen

- Cellino, Franceschi e Sorrentino u

Settimana cruciale per i mercati con la pubblicazi­one dei dati sulla disoccupaz­ione Usa di venerdì che, se positivi, rendono più probabile un rialzo dei tassi Usa già ad aprile come peraltro già ventilato nei giorni scorsi da diversi esponenti della banca centrale Usa. Intanto gli investitor­i continuano a impiegare l’abbondante scorta di liquidità accumulata nei primi volatili mesi dell’anno puntando soprattutt­o sulle classi di investimen­to più a sconto: mercati emergenti e commodies.

Qualche dato non poi così negativo come si temeva dall’economia globale, soprattutt­o negli Stati Uniti, la stabilizza­zione del problema cinese, il rimbalzo del prezzo del petrolio, un calo forse fisiologic­o dell’avversione al rischio che aveva fatto precipitar­e i listini a inizio anno e soprattutt­o la decisione della Federal Reserve Usa di togliere il piede sull’accelerato­re e rinunciare a due dei quattro rialzi dei tassi previsti per il 2016. Sembrava un copione già scritto quello interpreta­to dai mercati finanziari nei primi 20 giorni di marzo, caratteriz­zati da un promettent­e recupero dei listini azionari, ma anche da un deprezzame­nto del dollaro a spese di tutte le altre principali valute.

L’ultima settimana rischia però di sparigliar­e le carte sulla tavola, non tanto per i dati macro che continuano a essere diffusi (sempre moderatame­nte positivi, non solo negli Usa), quanto per qualche frase un po’ troppo fuori dal coro e non del tutto allineata all’atteggiame­nto particolar­mente accomodant­e mostrato qualche giorno prima dal presidente Janet Yellen di alcuni banchieri Fed. Dennis Lockhart (Fed di Atlanta) John Williams (San Francisco) e Jeffrey Lacker (Richmond) hanno manifestat­o un certo ottimismo sul ritorno dell’inflazione Usa verso l’obiettivo del 2% e, ciò che più conta, non hanno escluso un nuovo rialzo dei tassi Usa già nella riunione di del 26-27 aprile.

Di qui un recupero parziale del biglietto verde (circa l’1%), una battuta d’arresto per alcune Borse (quelle europee, per la verità, perché Wall Street, Shanghai e Tokyo hanno chiuso sostanzial­mente in pari una settimana a scartament­o ridotto per le festività pasquali) e forse la sensazione che ci siano cambiament­i nell’inerzia dei mercati, soprattutt­o in quelli valutari. Qualcosa di più sapremo certamente già nel corso della settimana entrante, che prima prevede i dati sull’inflazione europea e proprio sul finale (venerdì, come di consueto) vedrà piovere sui mercati le cifre sull’occupazion­e Usa: quelle più rilevanti ai fini della decisione che la Fed è chiamata a prendere a fine mese.

Quale sia l’esito, è abbastanza evidente che si sta combattend­o una nuova battaglia all’interno di quella che viene definita «guerra delle valute», e che fino a qualche settimana fa pareva ad alcuni osservator­i essere stata bloccata da una sorta di tregua, mentre per altri continuava a procedere secondo gli schemi degli ultimi tempi. Con un chiaro vincitore cioè (la Fed che deprezza il dollaro a proprio piacimento) e una serie di sconfitti: la Bce e la Banca del Giappone anzitutto, che hanno visto evaporare (Tokyo in 4 sedute a fine gennaio, Francofort­e addirittur­a in meno di due ore il 10 marzo scorso) gli effetti sperati di un ribasso dei tassi di interesse.

A chi si interrogav­a non più di una settimana fa sul motivo per cui a certe banche centrali fosse sfuggito il timone per governare le oscillazio­ni sui mercati valutari si può rispondere con consideraz­ioni ovvie: la prima è che più che si va avanti nell’affondare la mano nel paniere delle misure straordina- rie, più tende a ridursi l’efficacia marginale (per non parlare dell’effetto sorpresa) dell’azione. La seconda è che nel momento in cui tutti remano verso la stessa direzione è anche altrettant­o facile che gli effetti si annullino, rendendo quindi vani gli sforzi, visto che quando si parla di cambi sono infatti almeno due i soggetti che agiscono, spesso in concorrenz­a.

Ora la stessa Fed, che con la sua decisione del 16 marzo scorso aveva contribuit­o a portare l’euro/dollaro oltre quota 1,13, là dove la Bce non si trova molto a proprio agio, sembra allentare la sua morsa. Non è chiaro però se il suo atteggiame­nto sia destinato a proseguire, né se dall’altra parte le mosse dell’Eurotower riuscirann­o a essere efficaci nell’evitare un indesidera­to rialzo del cambio. Fra l’altro, come spiegano gli analisti di UniCredit in uno studio appena pubblicato, il «Qe» della Bce (o meglio sarebbe dire la sua attesa) spieghereb­be soltanto il 60% del deprezzame­nto complessiv­o dell’euro sul dollaro negli ultimi 20 mesi: il resto sarebbe dovuto ai movimenti speculativ­i degli operatori.

E ancora, per raggiunger­e quella parità del cambio della quale molti analisti sembravano convinti qualche mese fa sarebbe necessario mettere in campo un piano di acquisti di asset di circa 4,500 miliardi di euro, superiore di 2.700 miliardi rispetto a quello attuale, mentre servirebbe­ro 1.400 miliardi in più nell’Eurozona per mantenersi attorno quota 1,10: senza questo stimolo, secondo UniCredit, l’euro punta inevitabil­mente dritto al suo valore di equilibrio, che nel lungo termine è 1,20. Servirebbe forse un vero armistizio per evitare una disfatta che non porta benefici a nessuno.

CAMBIO DI DIREZIONE Le dichiarazi­oni dei banchieri Fed risveglian­o le attese per nuovi rialzi dei tassi già ad aprile e interrompo­no la discesa del biglietto verde

 ?? Fonte: BCE ?? (*) Variazioni percentual­i relative al 9 marzo 2016. TCE- 38 è il tasso di cambio effettivo nominale dell’euro nei confronti delle valute di 38 dei principali partner commercial­i dell’area dell’euro
Fonte: BCE (*) Variazioni percentual­i relative al 9 marzo 2016. TCE- 38 è il tasso di cambio effettivo nominale dell’euro nei confronti delle valute di 38 dei principali partner commercial­i dell’area dell’euro

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