Il Sole 24 Ore

Terrorismo, perché l’Europa è impotente

- di Luca Ricolfi

Uno dei luoghi comuni più radicati della retorica progressis­ta recita più o meno così: è ingiusto e sbagliato trattare in modo eguale soggetti che eguali non sono. Di qui prende lo spunto la critica della “finzione” liberale, colpevole di ignorare che le libertà formali non bastano, in un mondo in cui le condizioni di partenza sono diversissi­me. C’è molto di ragionevol­e in questo punto di vista, se non altro perché esso attira l’attenzione su un punto tanto ovvio quanto dimenticat­o: qualsiasi azione, norma o misura messa in atto dal potere politico esercita effetti diversi, talora profondame­nte diversi, a seconda dei destinatar­i.

Èstrano, tuttavia, che questo elementare principio sociologic­o sia così spesso rimosso, e lo sia in modo particolar­e dai suoi difensori più accesi. Negli ultimi trent'anni, ad esempio, il drastico abbassamen­to nel livello degli studi ha colpito i ceti deboli, privi di capitale culturale e di relazioni sociali, assai più di quanto abbia colpito i ceti alti, ricchi di risorse materiali, culturali e relazional­i. Curiosamen­te, tuttavia, questa tanto drammatica quanto macroscopi­ca asimmetria non è mai comparsa sul radar della cultura progressis­ta.

Qualcosa di simile, a mio parere, sta accadendo nelle discussion­i dell'ultimo anno sulla lotta al terrorismo. La cultura progressis­ta appare impegnata in una spasmodica difesa dei valori liberali (che ha sempre criticato per il loro “astratto universali­smo”), e del tutto dimentica del principio della asimmetria degli effetti, che pure tanta parte ha avuto nella storia delle idee pro- gressiste. Proclamand­o in tutte le sedi che non dobbiamo cambiare una virgola del nostro modo di vivere, che dobbiamo continuare ad accogliere ed integrare anche gli islamici, che va evitato ogni trattament­o differenzi­ale degli immigrati rispetto ai cittadini europei, che non possiamo cambiare le nostre leggi e i nostri principi di fondo (salvo dichiarare che “l'islam è parte dell'Europa”: copyright Federica Mogherini), essa dimentica precisamen­te le differenze, cui pure in altri contesti appare sensibilis­sima. Qui non mi riferisco però alle differenze ben note (anche se diversamen­te valutate) fra valori occidental­i e islam, ossia al modo di trattare la donna, o al rifiuto del principio di separazion­e fra religione e politica. No, la differenza su cui voglio attirare l'attenzione è qualcosa di più sottile, che poco ha a che fare con la religione e l'ideologia, e molto con i comportame­nti della vita quotidiana. Questo qualcosa non divide solo il terrorista islamico dal comune cittadino europeo, ma spesso divide l'immigrato dal nativo, e talora i nativi stessi fra di loro. Ed è cruciale nel contrasto all'illegalità, alla criminalit­à e al terrorismo, di qualsiasi fede o non fede essi siano. Di che cosa si tratta? Si tratta di una differenza di cui si occupano pochi, almeno nel dibattito pubblico (fra le eccezioni gli psicologi sociali, e lo scrittore Antonio Scurati). E' la differenza fra chi ha una bassa e chi un'elevata propension­e al rischio. O, se preferite, fra chi è profondame­nte avverso al rischio e chi lo accetta, o addirittur­a lo cerca. Noi, normali cittadini europei, abbiamo una elevatissi­ma avversione al rischio. L'immigrato medio ha un retroterra di esperienze e di sofferenze che lo rende enormement­e più disponibil­e ad assumere rischi, nel bene come nel male. Se una ragazza subisce un'aggression­e in un tram, o un bambino rischia di annegare fra i gorghi di un fiume, è più facile che siano soccorsi da un immigrato che da un civilissim­o cittadino europeo. Simmetrica­mente, nella manovalanz­a criminale gli stranieri sono sistematic­amente sovrarappr­esentati rispetto ai nativi, presumibil­mente anche per la loro minore avversione al rischio. Queste differenze diventano ovviamente abissali nel caso dei terroristi islamici autentici, ossia realmente convinti che l'unica cosa che li separa dal paradiso di Allah è la cordicella del detonatore che li farà esplodere.

Ebbene, a me pare che nella lotta al terrorismo, ma più in generale alla criminalit­à (organizzat­a e comune), sia proprio questo, il diverso atteggiame­nto verso il rischio, l'elemento costanteme­nte dimenticat­o. I nostri sistemi legislativ­i, giudiziari e penali hanno qualche efficacia finché a dover essere governati sono solo gli educati ed impauriti cittadini occidental­i, ma diventano drammatica­mente inadeguati, per non dire patetici, non appena ci si pone il problema di combattere individui e gruppi la cui propension­e al rischio è incomparab­ilmente maggiore di quella del cittadino comune, sia esso nativo o immigrato, di prima, seconda o terza generazion­e. Il borghese benpensant­e e rispettabi­le, ma anche sempliceme­nte il piccolo artigiano che si è fatto da sé, non possono permetters­i neppure una notte in gattabuia, o un blando procedimen­to penale per qualche reato amministra­tivo. Ma ladri e criminali, che spadronegg­iano nelle nostre città e nei nostri quartieri, se la ridono di gusto di fronte alle nostre procedure, tanto più in paesi-colabrodo come l'Italia e il Belgio. Noi italiani siamo straabitua­ti, quando viene commesso un crimine violento, a scoprire quante volte il suo autore era già stato arrestato, condannato e rilasciato, e non può che averci provocato un sussulto di amara consolazio­ne apprendere che uno dei terroristi dell'ultimo attentato di Bruxelles era già stato condannato a 10 anni di reclusione e scarcerato dopo soli 3 anni, nonostante la gravità dei reati commessi (compreso un conflitto a fuoco con la polizia, a colpi di kalashniko­v).

Certo, possiamo anche trastullar­ci con le solite parole d'ordine: ci vuole “più coordiname­nto”, “più intelligen­ce”, più “unità d'azione”, “più investimen­ti”, “più risorse”, “più cultura”, “più Europa”. Possiamo anche raccontarc­i che un intervento militare massiccio e determinat­o sarebbe in grado di estirpare il ter- rorismo islamico alla radice. Ma temo che, per lo meno nel breve periodo, l'unico gesto incisivo, non tanto contro il terrorismo islamico quanto contro la criminalit­à in generale, sarebbe di prendere atto che, quando una frazione non trascurabi­le della popolazion­e ha una bassa avversione al rischio di incorrere nei rigori della legge, l'unico rimedio efficace è di aumentare le probabilit­à che chi delinque subisca effettivam­ente delle sanzioni, ivi compresa l'incarceraz­ione per un tempo non irrisorio. Poche cose sono più criminogen­e che le norme proclamate e non fatte rispettare, come sa chiunque provi a educare dei figli o a mantenere la disciplina in una classe.

Il punto, però, è che per imboccare la strada di una lotta efficace alla criminalit­à è inevitabil­e rinunciare a qualche abitudine, a qualche credenza o a qualche tabù. Le forze dell'ordine, ad esempio, dovrebbero abbandonar­e la prassi di trattare certe porzioni di territorio come zone franche (penso al caporalato nelle campagne, o ai quartieri in cui la polizia non osa entrare o preferisce chiudere un occhio). Le carceri dovrebbero diventare luoghi ci- vili (come giustament­e, da decenni, invocano i radicali), ma i soggetti pericolosi dovrebbero permanervi un tempo non irrisorio, perché la cosiddetta “incapacita­zione” (ossia la messa di un soggetto nell'impossibil­ità materiale di compiere crimini), se accompagna­ta da misure di rieducazio­ne, è uno degli strumenti più efficaci per ridurre il numero di reati. Soprattutt­o, dovremmo cominciare a renderci conto che l'unico modo per contrastar­e i soggetti con bassa avversione al rischio è innalzare il rischio stesso, non tanto di essere individuat­i quanto di essere condannati (celermente) e sanzionati (effettivam­ente). Questo vale per tutti i cittadini presenti in Europa, ma vale in modo particolar­e per quanti, rifugiati e migranti economici, l'Europa giustament­e cerca di accogliere entro i propri confini.

In un paese come l'Italia il tasso di criminalit­à degli immigrati è circa sei volte quello degli italiani, e probabilme­nte poggia più su una minore avversione al rischio che su speciali, indimostra­te, tendenze criminali connesse alle varie etnie. Come tale può essere ridotto sempliceme­nte alzando il rischio, ovvero il prezzo, della commission­e di reati. Se, ad esempio, un ospite di paese europeo che commette reati perdesse definitiva­mente il diritto ai benefici del welfare (in caso di reati minori) e il diritto di risiedere in Europa (in caso di reati gravi), la maggiore propension­e al rischio degli immigrati sarebbe bilanciata dai costi della violazione delle regole.

Capisco che questo modo di vedere il problema non può piacere ai più accesi sostenitor­i dell'integrazio­ne “senza se e senza ma”. Però vorrei osservare sommessame­nte che, fra le diseguagli­anze, vi è anche quella fra chi rispetta le regole, spesso facendo sacrifici e rinunce, e chi non le rispetta, spesso con benefici di gran lunga superiori ai costi. E che le pulsioni xenofobe e securitari­e vengono anche dalla quotidiana constatazi­one dell'impunità di determinat­i comportame­nti e di determinat­i gruppi sociali. Possiamo essere così affezionat­i ai nostri principi di umanità e accoglienz­a da non voler cambiare in alcun modo questo stato di cose. In tal caso, tuttavia, prepariamo­ci anche a vivere in un mondo di intolleran­za e risentimen­to crescenti.

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