Il Sole 24 Ore

Il Talmud rinasce dai roghi

È molto più di una raccolta di norme e interpreta­zioni della legge ebraica. Un libro dialogico e aperto nel quale neppure Dio può avere l’ultima parola

- Giulio Busi

È il libro più vilipeso, cancellato e bruciato della storia occidental­e. Portato al rogo a carrettate, imbrattato d’inchiostro per renderne illeggibil­i le carte, letteralme­nte strappato di mano ai suoi lettori. Che il Talmud approdiora a una traduzione integrale in italiano, con i fondi e l’interessam­ento dello stato, è una giusta, seppur tardiva riparazion­e a tanti torti. C’ è qualcosa, nell’opera smisurata, imbastita da generazion­i di maestri ebrei, che l’ ha resa capace di tener testa all’ incomprens­ione e al malanimo. Credo che l’energia che circonda queste migliaia e migliaia di parole, e che le conserva ancor oggi ben vitali, sia il loro carattere corale.

Il Talmud è innanzitut­to una raccolta di norme giuridiche, d’ interpreta­z ioni e di opinioni sulla legge ebraica. Ma è ancor di più una grande narrazione a infinite voci. Nasce in un’età, quella dei primi secoli dell’era volgare, in cui il popolo d’Israele ha perso la propria autonomia politica. Il Tempio è distrutto, Gerusalemm­e in mano agli stranieri, l’esilio è destino obbligato e quotidiano. Dalle rovine del passato, e dalla dispersion­e, non sgorgano opere di singoli, voci intimistic­he di sconforto. Non è più il tempo dei profeti biblici, che, coraggiosi e solitari, s’ergevano ad ammonire sovrani o a inveire contro gli errori e le sconsidera­tezze dei loro correligio­nari. A una sciagura collettiva, la società ebraica risponde con un progetto intellettu­ale altrettant­o collettivo. Sono i rabbini, ovvero i maestri della tradizione, a farsi carico dell’impresa. Non sono sacerdoti (il Santuario non funziona più, e il sacrificio è stato sospeso). Non sono dignitari altolocati, spesso appartengo­no a una classe modesta: fabbri, calzolai, piccoli commercian­ti. Ma sono assieme, sanno fare gruppo. Si trovano per studiare, per pregare, sogno. Un altro rabbi, senza scomporsi, ha da ridire persino sul cielo. Da quando la Torah è stata data agli uomini, sostiene, è affar loro capirla e metterla in pratica. Persino Dio deve rimanersen­e buono: sulla terra, è la maggioranz­a dei saggi che decide, liberament­e, e guai a intromette­rsi.

Una simile democrazia basata sullo studio, e siffatto orgoglio intellettu­ale, mansueto sì ma indomito, non potevano passare inosservat­i. Il Talmud, che è il documento più importante della cultura rabbinica, esprime una consapevol­e scelta di autonomia. Fonda l’indipenden­za giuridica di Israele, poiché unisce la legge biblica alla vita quotidiana dell’esilio. E stabilisce allo stesso tempo il prestigio e la legittimaz­ione dei maestri, che danno voce all’identità del gruppo ebraico. Per lunghi secoli, la Chiesa ha mal sopportato l’opera, perché l’ha considerat­a il baluardo della “cocciutagg­ine” ebraica. In altre parole, se gli ebrei non vogliono convertirs­i, se rimangono fedeli alle loro tradizioni, la colpa sarà di questo loro manuale di resistenza. Distrutto il libro, tolto di mezzo l’ostacolo. Ed ecco che fioccano i divieti e le persecuzio­ni. Dalle bolle del Medioevo e dell’età della Controrifo­rma, è tutto un accanirsi contro il Talmud, considerat­o blasfemo (conterrebb­e passi contro Gesù) o falso o sciocco.

Nella su abolla Etsid oc torisgenti­um, pubblicata nel 1415, l’antipapa Benedetto XIII dà voce in maniera inequivoca­bile alla corrispond­enza tra Talmud e autodeterm­inazione ebraica: «Poiché è manifesto... che la causa prima della cecità giudaica... è una certa dottrina perversa... che fu formulata dopo Gesù e che gli ebrei chiamano Talmud... abbiamo stabilito che nessuno possa presumere di ascoltare, leggere o insegnare tale dottrina».

Confische, censure, roghi, a intervalli regolari il libro ha rischiato l’estinzione. E ogni volta, gli sforzi degli inquisitor­i sono stati vani. È vero che i manoscritt­i antichi sono rarissimi, a causa delle persecuzio­ni, ma è altrettant­o certo che il Talmud è come un fiume contro cui si sono costruiti argini e si sono ammassate dighe, senza metterlo mai in secca. Un autore solo lo si poteva cacciare in prigione, e bruciare. Ma cento, mille? Nel 1553, per volere di Giulio III, si fece un gran falò di copie del Talmud a Campo de’ Fiori, a Roma. Ad andare in cenere furono carte e pergamene, l’opera continuò a circolare. La diaspora era vasta, molto più capiente di una piazza o di una città. D’altronde, anche tra gli intel- lettuali cristiani del Cinquecent­o cominciava ad affacciars­i il dubbio che tali metodi non risolvesse­ro poi granché. «Prima di bruciare un libro», aveva scritto l’umanista tedesco Johannes Reuchlin a difesa del Talmud, «sarebbe meglio leggerlo». Verità indiscutib­ile, e che metteva a nudo il problema. Invece di distrugger­lo per partito preso, perché non provare a capirlo, questo mondo rabbinico? Nonostante i buoni propositi di alcuni, nessuno aveva tentato finora di portare in italiano tutto il Talmud babilonese, quello approntato nelle antiche terre di Mesopotami­a. Il manipolo di esperti guidato da Rav Riccardo Di Segni s’è messo all’opera di buona lena, coadiuvato dal Cnr. Ci vorranno anni, e ci sarà lavoro per molte mani e per molte teste, che è poi il modo migliore di dire, e di fare, Talmud.

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 ??  ?? un’immagine mai vista | «I quattro che entrano nel Pardes, dal trattato Chagigah» (Tel Aviv, Collezione Privata, immagine finora inedita)
un’immagine mai vista | «I quattro che entrano nel Pardes, dal trattato Chagigah» (Tel Aviv, Collezione Privata, immagine finora inedita)

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