Valute, serve una nuova Bretton Woods
Il nostro mondo è in una situazione sempre più pericolosa. Sia le economie avanzate che quelle emergenti hanno bisogno di crescere per poter alleviare le tensioni politiche interne, ma poche ci riescono.Se i governi reagiranno attuando politiche perla crescita che vanno a scapi todi altri Paesi, il risultato sarà favorire instabilità fuori dai propri confini.
Quello che serve sono nuove regole del gioco. Perché si sta dimostrando tanto difficile tornare ai tassi di crescita precedenti alla Grande Recessione? La risposta più semplice è che il boom che ha preceduto la crisi finanziaria del 2008 ha lasciato le economie avanzate con una massa debitoria che soffoca la crescita. La soluzione potrebbe essere svalutare il debito per rilanciare la domanda, ma non è detto che sia politicamente praticabile, né che la domanda che ne risulterebbe sia sostenibile. Inoltre, fattori strutturali come l'invecchiamento della popolazione e la bassa crescita della produttività, che prima erano mascherati da una domanda alimentata dal debito, potrebbero ostacolare la ripresa.
I politici sanno che le riforme strutturali – per incrementare la concorrenza, per incoraggiare l'innovazione e per stimolare cambiamenti istituzionali – sono la strada giusta per affrontare gli impedimenti strutturali alla crescita. Ma sanno anche che gli effetti negativi prodotti dalle riforme sono immediati, mentre i benefici di solito si fanno sentire dopo parecchio tempo, e non si sa con certezza chi se ne avvantaggerà. Come disse JeanClaude Juncker, all’epoca primo ministro del Lussemburgo, nel momento più critico della crisi dell'euro: «Sappiamo tutti che cosa bisogna fare; solo che non sappiamo come fare a essere rieletti se lo facciamo!».
I governatori delle Banche centrali hanno un problema diverso, un’inflazione che aleggia intorno al margine inferiore dell'obbiettivo. Con i tassi di interesse già a livelli bassissimi, le Banche centrali delle economie avanzate sanno di dover andare oltre la politica monetaria convenzionale, se non vogliono perdere credibilità sul fronte dell’inflazione. Sono convinte di non aver ancora esaurito le munizioni. Se tutto il resto dovesse fallire, ci sono sempre gli elicotteri della famosa metafora friedmaniana, con la Banca centrale che stampa moneta e la sparge in giro (più prosaicamente, spedisce un assegno a ogni cittadino, magari soprattutto a quelli poveri, che è più probabile che lo spendano). Ma oltre a questo, possono usare altri strumenti maggiormente convenzionali in modo più aggressivo, dall’acquisto di attività (il cosiddetto allentamento quantitativo) ai tassi di interesse negativi.
Ma la domanda è: queste politiche raggiungerebbero il loro obbiettivo, cioè rafforzare domanda e crescita? La politica monetaria funziona influenzando le aspettative dei cittadini. Se una politica sempre più aggressiva dovesse convincere l’opinione pubblica che c’è una calamità in vista, le famiglie potrebbero decidere di risparmiare, invece di spendere. Tanto più se fossero convinte che prima o poi sarebbe necessario invertire la rotta per ovviare alle conseguenze.
Inversamente, se le persone dovessero convincersi che queste politiche rimarrebbero sempre in vigore, potrebbero tornare a gettarsi a capofitto sulle attività e indebitarsi eccessivamente, aiutando la Banca centrale a raggiungere i suoi obbiettivi nel breve termine. Ma le politiche inevitabilmente cambiano, e in quel caso gli spostamenti dei prezzi delle attività creerebbero scombussolamenti enormi.
Al di là dell’impatto interno, tutte le politiche monetarie provocano ripercussioni esterne. In circostanze normali, se un Paese riduce i tassi di interesse al livello nazionale per potenziare i costumi e gli investimenti interni, vede scendere il tasso di cambio, con un'ulteriore spinta per le esportazioni. Il problema è che le circostanze odierne non sono normali. Non è detto che la domanda interna reagirebbe a politiche non convenzionali. Inoltre, di fronte alla distorsione dei prezzi delle obbligazioni nazionali prodotta da queste politiche, i fondi pensione e le compagnie assicurative potrebbero decidere di andare a comprare bond su mercati esteri meno distorti: una ricerca di rendimento che finirebbe per deprezzare ulteriormente il tasso di cambio e accrescerebbe il rischio di svalutazioni competitive, nocive per tutti. Al momento, le Banche centrali dei Paesi sviluppati cercano giustificazioni di ogni sorta per le loro politiche pur di non ammettere l'indicibile, e cioè che il canale di trasmissione primario, forse, è il tasso di cambio. Se è così, quello di cui abbiamo bisogno sono regole monetarie che impediscano che il mandato nazionale di una Banca centrale possa prevalere sulle responsabilità internazionali di un Paese. Per fare un’analogia con il traffico stradale, le politiche con limitate ripercussioni negative dovrebbero essere evidenziate con il colore verde, quelle che andrebbero usate in via temporanea con il giallo e quello da evitare con il rosso.
Se una politica ha effetti positivi sul Paese che la adotta e sugli altri Paesi, è senz'altro verde. Può essere verde anche se serve a rimettere in moto l’economia nazionale con ripercussioni negative solo temporanee per gli altri Paesi (per l’economia degli altri Paesi si tratterebbe di una misura positiva, perché alla fine potenzierebbe la domanda di merci di importazione dell’economia nazionale). Un esempio di politica «rossa» è quando misure monetarie non convenzionali sono poco efficaci per rilanciare la domanda interna di un Paese, ma in compenso provocano deflussi di capitali che innescano bolle dei prezzi delle attività nei mercati emergenti. Le aree grigie (o gialle, per restare nella metafora semaforica) non mancano. Una politica che ha effetti positivi importanti per una grande economia potrebbe avere effetti negativi contenuti per il resto del mondo, ma nonostante questo rimanere positiva, nel complesso, per il benessere globale. Una politica del genere sarebbe contemplabile solo per un certo periodo. Anche con i migliori dati, modelli e studi empirici, non c’è ancora un consenso chiaro sul colore delle politiche applicate attualmente. Ecco perché è necessario avviare un dibattito. Si potrebbe partire dagli studi preparatori di eminenti accademici e passare poi a istituzioni multilaterali come il Fmi e il G20. Inizialmente ci sarebbe una gran confusione, ma il dibattito porterebbe poi a modelli e dati migliori, e spingerebbe le autorità a tenersi alla larga da quelle politiche bollate come «rosse».
Quello che ho in mente comporterebbe, alla fine, un nuovo accordo internazionale sul modello di Bretton Woods, e una reinterpretazione dei mandati delle Banche centrali dotate di influenza internazionale. Ma una base per la discussione già l'abbiamo. L'articolo IV dello Statuto del Fmi dichiara: «In particolare, ogni membro deve […] evitare di manipolare i tassi di cambio o il sistema monetario internazionale allo scopo di impedire un efficace aggiustamento della bilancia dei pagamenti o di acquisire un vantaggio competitivo iniquo su altri membri…».
Per fissare le regole ci vorrà tempo. Ma la comunità internazionale deve scegliere. Possiamo far finta che tutto vada bene con il non-sistema monetario globale e sperare che nessuno faccia qualcosa di clamorosamente sbagliato. Oppure possiamo cominciare a costruire un sistema adatto per il mondo integrato del XXI secolo.
RISCHI MONETARI In un’economia sempre più globalizzata le mosse delle banche centrali hanno sempre ripercussioni esterne