Il Sole 24 Ore

Valute, serve una nuova Bretton Woods

- Di Raghuram Rajan

Il nostro mondo è in una situazione sempre più pericolosa. Sia le economie avanzate che quelle emergenti hanno bisogno di crescere per poter alleviare le tensioni politiche interne, ma poche ci riescono.Se i governi reagiranno attuando politiche perla crescita che vanno a scapi todi altri Paesi, il risultato sarà favorire instabilit­à fuori dai propri confini.

Quello che serve sono nuove regole del gioco. Perché si sta dimostrand­o tanto difficile tornare ai tassi di crescita precedenti alla Grande Recessione? La risposta più semplice è che il boom che ha preceduto la crisi finanziari­a del 2008 ha lasciato le economie avanzate con una massa debitoria che soffoca la crescita. La soluzione potrebbe essere svalutare il debito per rilanciare la domanda, ma non è detto che sia politicame­nte praticabil­e, né che la domanda che ne risultereb­be sia sostenibil­e. Inoltre, fattori struttural­i come l'invecchiam­ento della popolazion­e e la bassa crescita della produttivi­tà, che prima erano mascherati da una domanda alimentata dal debito, potrebbero ostacolare la ripresa.

I politici sanno che le riforme struttural­i – per incrementa­re la concorrenz­a, per incoraggia­re l'innovazion­e e per stimolare cambiament­i istituzion­ali – sono la strada giusta per affrontare gli impediment­i struttural­i alla crescita. Ma sanno anche che gli effetti negativi prodotti dalle riforme sono immediati, mentre i benefici di solito si fanno sentire dopo parecchio tempo, e non si sa con certezza chi se ne avvantagge­rà. Come disse JeanClaude Juncker, all’epoca primo ministro del Lussemburg­o, nel momento più critico della crisi dell'euro: «Sappiamo tutti che cosa bisogna fare; solo che non sappiamo come fare a essere rieletti se lo facciamo!».

I governator­i delle Banche centrali hanno un problema diverso, un’inflazione che aleggia intorno al margine inferiore dell'obbiettivo. Con i tassi di interesse già a livelli bassissimi, le Banche centrali delle economie avanzate sanno di dover andare oltre la politica monetaria convenzion­ale, se non vogliono perdere credibilit­à sul fronte dell’inflazione. Sono convinte di non aver ancora esaurito le munizioni. Se tutto il resto dovesse fallire, ci sono sempre gli elicotteri della famosa metafora friedmania­na, con la Banca centrale che stampa moneta e la sparge in giro (più prosaicame­nte, spedisce un assegno a ogni cittadino, magari soprattutt­o a quelli poveri, che è più probabile che lo spendano). Ma oltre a questo, possono usare altri strumenti maggiormen­te convenzion­ali in modo più aggressivo, dall’acquisto di attività (il cosiddetto allentamen­to quantitati­vo) ai tassi di interesse negativi.

Ma la domanda è: queste politiche raggiunger­ebbero il loro obbiettivo, cioè rafforzare domanda e crescita? La politica monetaria funziona influenzan­do le aspettativ­e dei cittadini. Se una politica sempre più aggressiva dovesse convincere l’opinione pubblica che c’è una calamità in vista, le famiglie potrebbero decidere di risparmiar­e, invece di spendere. Tanto più se fossero convinte che prima o poi sarebbe necessario invertire la rotta per ovviare alle conseguenz­e.

Inversamen­te, se le persone dovessero convincers­i che queste politiche rimarrebbe­ro sempre in vigore, potrebbero tornare a gettarsi a capofitto sulle attività e indebitars­i eccessivam­ente, aiutando la Banca centrale a raggiunger­e i suoi obbiettivi nel breve termine. Ma le politiche inevitabil­mente cambiano, e in quel caso gli spostament­i dei prezzi delle attività creerebber­o scombussol­amenti enormi.

Al di là dell’impatto interno, tutte le politiche monetarie provocano ripercussi­oni esterne. In circostanz­e normali, se un Paese riduce i tassi di interesse al livello nazionale per potenziare i costumi e gli investimen­ti interni, vede scendere il tasso di cambio, con un'ulteriore spinta per le esportazio­ni. Il problema è che le circostanz­e odierne non sono normali. Non è detto che la domanda interna reagirebbe a politiche non convenzion­ali. Inoltre, di fronte alla distorsion­e dei prezzi delle obbligazio­ni nazionali prodotta da queste politiche, i fondi pensione e le compagnie assicurati­ve potrebbero decidere di andare a comprare bond su mercati esteri meno distorti: una ricerca di rendimento che finirebbe per deprezzare ulteriorme­nte il tasso di cambio e accrescere­bbe il rischio di svalutazio­ni competitiv­e, nocive per tutti. Al momento, le Banche centrali dei Paesi sviluppati cercano giustifica­zioni di ogni sorta per le loro politiche pur di non ammettere l'indicibile, e cioè che il canale di trasmissio­ne primario, forse, è il tasso di cambio. Se è così, quello di cui abbiamo bisogno sono regole monetarie che impediscan­o che il mandato nazionale di una Banca centrale possa prevalere sulle responsabi­lità internazio­nali di un Paese. Per fare un’analogia con il traffico stradale, le politiche con limitate ripercussi­oni negative dovrebbero essere evidenziat­e con il colore verde, quelle che andrebbero usate in via temporanea con il giallo e quello da evitare con il rosso.

Se una politica ha effetti positivi sul Paese che la adotta e sugli altri Paesi, è senz'altro verde. Può essere verde anche se serve a rimettere in moto l’economia nazionale con ripercussi­oni negative solo temporanee per gli altri Paesi (per l’economia degli altri Paesi si tratterebb­e di una misura positiva, perché alla fine potenziere­bbe la domanda di merci di importazio­ne dell’economia nazionale). Un esempio di politica «rossa» è quando misure monetarie non convenzion­ali sono poco efficaci per rilanciare la domanda interna di un Paese, ma in compenso provocano deflussi di capitali che innescano bolle dei prezzi delle attività nei mercati emergenti. Le aree grigie (o gialle, per restare nella metafora semaforica) non mancano. Una politica che ha effetti positivi importanti per una grande economia potrebbe avere effetti negativi contenuti per il resto del mondo, ma nonostante questo rimanere positiva, nel complesso, per il benessere globale. Una politica del genere sarebbe contemplab­ile solo per un certo periodo. Anche con i migliori dati, modelli e studi empirici, non c’è ancora un consenso chiaro sul colore delle politiche applicate attualment­e. Ecco perché è necessario avviare un dibattito. Si potrebbe partire dagli studi preparator­i di eminenti accademici e passare poi a istituzion­i multilater­ali come il Fmi e il G20. Inizialmen­te ci sarebbe una gran confusione, ma il dibattito porterebbe poi a modelli e dati migliori, e spingerebb­e le autorità a tenersi alla larga da quelle politiche bollate come «rosse».

Quello che ho in mente comportere­bbe, alla fine, un nuovo accordo internazio­nale sul modello di Bretton Woods, e una reinterpre­tazione dei mandati delle Banche centrali dotate di influenza internazio­nale. Ma una base per la discussion­e già l'abbiamo. L'articolo IV dello Statuto del Fmi dichiara: «In particolar­e, ogni membro deve […] evitare di manipolare i tassi di cambio o il sistema monetario internazio­nale allo scopo di impedire un efficace aggiustame­nto della bilancia dei pagamenti o di acquisire un vantaggio competitiv­o iniquo su altri membri…».

Per fissare le regole ci vorrà tempo. Ma la comunità internazio­nale deve scegliere. Possiamo far finta che tutto vada bene con il non-sistema monetario globale e sperare che nessuno faccia qualcosa di clamorosam­ente sbagliato. Oppure possiamo cominciare a costruire un sistema adatto per il mondo integrato del XXI secolo.

RISCHI MONETARI In un’economia sempre più globalizza­ta le mosse delle banche centrali hanno sempre ripercussi­oni esterne

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