Regeni, i dubbi dei Pm romani
La versione egiziana non convince Renzi - La procura: chiarire il mistero dei documenti
«L’Italia non si accontenterà di nessuna verità di comodo». L’omicidio di Giulio Regeni dovrà essere chiarito, «lo dobbiamo alla famiglia, a tutti noi e alla nostra dignità».
È perentorio il presidente del Consiglio dei ministri Matteo Renzi, all’indomani del ritrovamento di effetti personali e documenti del giovane ricercatore ventottenne, scomparso il 25 gennaio, giorno dell’anniversario della rivoluzione egiziana, e ritrovato cadavere il 3 febbraio alla periferia del Cairo. Il premier considera «un passo in avanti importante» la «collaborazione» avviata dai magistrati cairoti con «i nostri, guidati da una figura autorevolissima come il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone». Tuttavia, sembra che si debba fare ancora tanto. Perché dall’Egitto continuano a trapelare verità puntualmente smentite. Un nuovo nodo ora dovrà essere sciolto. Che ruota attorno allo «strano» - come lo definiscono gli investigatori italiani - ritrovamento dei documenti del ricercatore di Udine.
Ma andiamo con ordine. In tre giorni si è cercata una «verità» sull’omicidio di Giulio. Mercoledì i suoi documenti sono portati nell’abitazione di un capobanda di rapinatori egiziani, ucciso giovedì con quattro suoi sodali in un blitz della polizia del Cairo. Venerdì, la nota del ministero dell’Interno cairota, in cui si parla del ritrovamento dei documenti e di un presunto ruolo della banda nelle sevizie e nella morte di Giulio. Una versione dei fatti smentita dalla moglie e dalla sorella di Tarek Abdel Fatah, capobanda dei rapinatori, che hanno negato un legame tra Regeni e la “batteria” criminale. Le donne hanno chiarito che una borsa, contenente documenti ed effetti personali di Regeni, sarebbe finita «per cinque giorni» nelle mani di Abdel Fatah, che poi se la sarebbe portata mercoledì nella sua abitazione. La consegna sarebbe stata fatta da un «amico» dell’uomo, di cui allo stato non si conosce l’identità. Giovedì, il blitz e il ritrovamento della borsa. La Procura di Roma, dunque, intende chiarire «l’iter della scoperta dei documenti». Di questo ne parlerà al vertice previsto per il 5 aprile con le forze di polizia egiziane. Il timore, dunque, è che questo passaggio di documenti possa, in realtà, nascondere un ennesimo depistaggio. Un modo per fornire all’Italia dei colpevoli (i banditi ormai morti) e una verità che allontani i sospetti sulle forze di sicurezza di Al-Sisi, accusate dalla associazioni dei diritti umani di compiere sequestri e torture contro i dissidenti al regime. Una sorte che, secondo ipotesi, potrebbe essere toccata allo stesso Giulio, il quale collaborava con docenti giudicati «contrari» al governo egiziano. Secondo l’avvocato Alessandra Ballerini, che segue il caso su mandato della famiglia Regeni, «si susseguono infamanti depistaggi e credo che il nostro sgomento sia quello dell’Italia intera. La cosa che ci ha colpito di più è l’insulto, la mancanza di rispetto non solo nei confronti di Giulio ma di tutto il paese e delle istituzioni, come se potessimo accontentarci di queste menzogne». Dura la reazione del presidente della Camera, Laura Boldrini, che su Twitter definisce «scoraggiante» l’ennesima «versione dei fatti sull’omicidio di Giulio» e che «getta un’ombra sul rigore delle indagini svolte in Egitto».