Il Sole 24 Ore

La favola delle pinzette d’argento

Lo scrittore descrive la vita nei villaggi azeri durante e dopo la seconda guerra mondiale attraverso gli occhi di un bambino

- Akram Aylisli

Il racconto « La favola delle pinzette d’argento » che qui pubblichia­mo è tratto dalla trilogia People and trees ( 1970) in cui lo scrittore Akram Aylisli descrive la vita nei villaggi azeri durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, vista con gli occhi di un giovane protagonis­ta, sensibile e impression­abile. Il volume non è mai stato tradotto in italiano. Akram Aylisli è nato in Azerbaigia­n nel 1937, oltre ad essere un noto scrittore è anche un ex parlamenta­re. Nel 2013, quando ha pubblicato il romanzo Sogni di pietra ( prefazione di Gian Antonio Stella, Guerini e Associati, pagg. 144, € 12,50) è stato al centro di proteste violente. Lo scrittore, privato della pensione, espulso dall’Unione degli scrittori azeri, sottoposto a minacce e ritorsioni, è stato dichiarato « apostata » e considerat­o un reietto. Ambientato a Baku il romanzo racconta lo scontro etnico/ religioso fra armeni e azeri e il mondo violento e pericoloso che si è creato dopo la fine dell’impero sovietico: i pogrom contro gli armeni, le aggression­i in strada, la corruzione dei nuovi padroni e il servilismo e l’opportunis­mo dei sudditi.

Mio padre andava per il distretto a vendere i meloni del kolchoz e lo vedevamo giusto di sera. Allora c’era soltanto la nostra casa, c’era il cortile con l’ombra degli alberi, c’erano le montagne e il sole; c’ero io e c’era la nonna; c’era anche la nostra mucca che andava via al mattino e tornava la sera, come papà.

Tutto il resto era oltre lo steccato. Di là dello steccato c’erano altre case, altri alberi, altra gente. C’erano ragazzi grandi e grossi che picchiavan­o i più piccoli. C’erano cani grandi e cattivi che mordevano i più piccoli. Ogni tanto, oltre lo steccato, capitava un matrimonio, e la gente si divertiva. E capitava anche qualche funerale, e la gente piangeva…

C’ero io e c’era la nonna, e la sera a casa tornavano anche mio padre e la mucca. C’era anche un posto – «l’altro mondo», si chiamava – e il giovedì sera, quando ci mettevamo a letto, dall’altro mondo arrivava il nonno. Il giovedì la nonna sfregava e puliva la casa da cima a fondo. Sbatteva via la polvere dalle due bisacce nere da sella del nonno e le appendeva su un chiodo, in camera. Infilava lo stoppino nella lampada e la lasciava accesa in corridoio, di nascosto da mio padre. Quando se ne accorgeva mio padre brontolava, perché il cherosene costava caro e portarlo dal distretto era fatica e poi, potete immaginare, mio padre all’altro mondo non ci credeva e ancora meno credeva a dio.

Mio padre dormiva da solo nella cameretta. Io e la nonna dormivamo insieme, nella stanza grande, e il giovedì notte nel corridoio fuori della stanza la lampada tremolava spaurita, di nascosto da mio padre. Anche io tremavo, quelle notti. Avevo una gran paura del nonno, e a poco serviva che la nonna mi ripetesse che lui non faceva per niente paura. Non ha mai spaventato nessuno in vita sua, mi assicurava, non diceva neanche “sciò” alle galline. Era fatto così. E non viene per spaventarc­i, ma per farci un saluto, per controllar­e come stiamo, se abbiamo il cherosene, se abbiamo da mangiare a sufficienz­a… E anche per vedere se non Giovedì 31 marzo alle 14.30 Akram Aylisli sarà a Venezia all’Auditorium di Santa Margherita per la IX edizione di «Incroci di civiltà» (www.incrocidic­ivilta.com), incontri internazio­nali di letteratur­a diretti da Pia Masiero e organizzat­i da Università Ca’ Foscari, Fondazione di Venezia e Comune di Venezia che si terranno dal 30 marzo al 2 aprile 2016. L’edizione 2016, con grandi nomi della letteratur­a provenient­i da 28 Paesi, apre al Teatro Goldoni con lo scrittore franco-libanese Amin Maalouf, mentre a chiudere Incroci 2016 sarà il giornalist­a e scrittore messicano Paco Ignacio Taibo II. Tra gli altri protagonis­ti Khaled Kalifa, Gart Risk Hallberg, Catherine Chanter, Frank Westeman. ci siamo allontanat­i dalla giusta via. E siccome dalla giusta via mio padre si era allontanat­o eccome, dopo ogni salat, la nonna alzava gli occhi al cielo e cercava di convincere dio a perdonare i peccati di mio padre. La nonna aveva insegnato anche a me a pregare. Così anche io mi ero messo a scongiurar­e dio. «Signore» dicevo, ripetendo le parole della nonna, «Tu che sei misericord­ioso e giusto, perdona mio padre! Lo vedi che fa una vitaccia: sempre di corsa, tutti che lo comandano a bacchetta… perdonagli i suoi peccati, mostragli la tua misericord­ia». La nonna diceva che la mia preghiera arrivava prima all’onnipotent­e perché io ero un bambino e gli angeli custodi che vegliano su tutti noi non mi avevano ancora segnato nessun peccato sulla fronte; e dio di sicuro avrebbe perdonato mio padre, perché mio padre non ruba niente a nessuno e il pane se lo guadagna col sudore della fronte. Mentre ci sono persone che dio non perdonerà mai e poi mai: i ladri, gli invidiosi, chi bestemmia, chi imbratta i muri della moschea e lava i panni sporchi alla fonte… Tutta gente che, però, era lontana, molto lontana da me… Gente che stava oltre lo steccato…

Di là dello steccato c’era anche un altro posto, la scuola, dove suonava di continuo la campanella. Di là dello steccato c’era la bottega, e davanti alla bottega urlavano tutti e litigavano per il cherosene. C’erano un sacco di cose di là dello steccato, ma erano così lontane, così lontane…

Di qua c’ero io e c’era la nonna, e noi ci capivamo al volo. Quando sulle chiome degli alberi gracchiava­no i corvi o stridevano le gazze, noi eravamo sicuri che stessero parlando tra di loro; ne ero sicuro io e ne era sicura la nonna. La sera, quando il sole spariva dietro le montagne, né io né lei avevamo il minimo dubbio che andasse a dormire. Conoscevam­o a memoria tutti i piccoli delle gazze che avevano il nido sul vecchio pero: li conoscevo io e li conosceva lei. E se passava un pipistrell­o morivamo tutti e due di paura: morivo io e moriva lei… Solo quando era di là dello steccato la nonna diventava un’altra: lei conosceva tutti, mentre io non conoscevo nessuno, lei non aveva paura di nessuno, mentre io avevo paura di tutti.

C’ero io e c’era la nonna, e la sera c’era mio padre che tornava a casa e c’era la mucca che tornava a casa anche lei. I corvi e le gazze parlavano tra di loro. E il sole andava a dormire dietro le montagne. E laggiù, lontano lontano, oltre lo steccato, c’era gente sconosciut­a e i cani grandi e cattivi che abbaiavano. La campanella suonava. E vicino alla bottega la gente litigava per il cherosene. Noi il cherosene l’avevamo, e avevamo anche il pane e avevamo il nonno che il giovedì notte arrivava dall’altro mondo a controllar­e. Il giovedì notte in corridoio la luce della lampada tremolava spaurita fino all’alba; le bisacce nere del nonno diventavan­o ancora più nere e tutto quel nero appeso al chiodo faceva ancora più paura.

C’era anche il tasbih nero del nonno. E c’erano le pinzette d’argento della nonna. In quel periodo c’era anche una ragazza, Sadaf, che veniva due volte alla settimana, prendeva le pinzette d’argento e toglieva dei peletti duri duri dalle palpebre della nonna. Quei peletti davano molto fastidio alla nonna quando doveva mettere il filo nell’ago, ed era colpa loro se i capelli bianchi della nonna finivano nella pentola e a me veniva una gran paura quando cadevano nel piatto di mio padre.

Un giorno le pinzette della nonna sparirono: caddero nell’erba sotto al melo e non si trovarono più. Le cercai a lungo, invano. Quando venne Sadaf, anche lei si mise a cercarle, anche lei invano. La vicina di casa, zia Shaiste, frugò nell’erba filo a filo, ma niente, le pinzette non c’erano. Io non ne potevo più di infilare l’ago alla nonna e quasi ogni sera mio padre trovava capelli bianchi nel piatto. Poi la nonna morì. La portarono via e la seppelliro­no. A me dissero che se ne era andata per sempre, che non sarebbe più tornata. La nonna se ne era andata per sempre, ma il nonno veniva ancora a trovarci. Anche zia Medina veniva spesso a trovarci, il giovedì: lavava i pavimenti, scuoteva la polvere dalle bisacce nere da sella, metteva la lampada in corridoio. Intanto i corvi e le gazze continuava­no a parlare fra di loro e il sole andava a dormire dietro le montagne… Poi un giorno arrivò zia Shaiste, e scoprimmo che la nonna non se ne era andata per niente.

Zia Shaiste era in cortile con la schiena appoggiata al muretto. Zia Medina stava cuocendo il pane. E sotto il melo, proprio là dove la nonna aveva perso le pinzette, volava una grande farfalla blu. Io avrei voluto prenderla, ma in quello stesso momento la zia Shaiste gridò fortissimo:

«Guarda, Medina… Sotto il melo! Guarda sotto il melo! È Esmet, ci scommetto, è Esmet! Non la toccare! Non la toccare, figliolo! Lascia che voli! È tua nonna che è venuta a cercare le pinzette!».

Mi bloccai, quasi svenni per la paura. Lì per lì mi sentivo pesante come un macigno, poi divenni leggero come una piuma. Alzai gli occhi e mi guardai intorno; era tutto diverso, intorno a me era tutto cambiato… Era diversa la zia ed era diverso il cortile. Il sole andava a dormire dietro le montagne, e un sole così non l’avrei più rivisto in tutta la mia vita. Così come non avrei più rivisto quel colore del mondo, quelle montagne, quell’erba, quegli alberi…

La nonna era diventata una farfalla e svolazzava sull’erba, in cortile. E se si allontanav­a dal melo avevo voglia di chiamarla, di indicarle il punto dove aveva perso le pinzette: chissà, magari se l’era dimenticat­o. A volte la nonna si presentava con qualche amica, ma non toccavo neanche loro. Le aiutavo a cercare le pinzette…

C’erano una volta le gazze parlanti e c’erano una volta le stelle, anche loro parlanti… E i cani grandi e cattivi che abbaiavano di là dello steccato. E la gente che litigava fuori della bottega per il cherosene. E noi il cherosene ce l’avevamo, avevamo anche il pane e il nonno che veniva a trovarci…

Una notte il nonno tornò. C’era la guerra, ma non c’erano più né mio padre, né il cherosene, né il pane. E quella volta, quando il nonno arrivò, fu la prima volta che non ebbi paura. Anzi, ero felice. «Nonno» dissi «non abbiamo più pane. L’hai portato tu?!». Il nonno infilò la mano nelle sue bisacce – le stesse, quelle nere che stavano appese al chiodo della stanza; frugò in una tasca – niente; frugò nell’altra, ancora niente. Il nonno prese le bisacce, le scrollò per bene e sul pavimento tintinnaro­no le pinzette della nonna… Andai subito a vedere e le trovai: erano davvero rimaste nelle bisacce. Le presi e le appesi al melo. E da quel giorno quando la nonna rispuntava in giardino volava sempre intorno all’albero. Il nonno, invece, da quella volta non venne più a trovarci. E io ogni tanto invece di sognare lui sognavo un pipistrell­o: era nero ed enorme come le sue bisacce da sella, e – anzi – ogni ala sembrava proprio una delle due bisacce.

– traduzione di Giulia De Florio

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di Franco Matticchio

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