Ma Orlando non era innamorato
UTiziano Zanato, Boiardo, Salerno editrice, Roma, pagg. 416, € 21.
no dei torti più gravi che sono stati fatti a Matteo Maria Boiardo è stato quello di leggerlo non con gli occhi del suo pubblico, ma con quelli dei suoi posteri. Così, ci sono ancora forse milioni di persone (se non siamo troppo ottimisti sulla cultura letteraria media degli italiani) convinti che la sua opera maggiore sia l’Orlando innamorato. Ora quel titolo, Orlando innamorato, non solo è sbagliato e posticcio (la più recente edizione critica ha restituito al poema il titolo, peraltro malcerto, ma ben più plausibile, di
Inamoramento de Orlando), ma è fatto apposta per suggerire nemmeno troppo implicitamente il confronto – com’è ovvio umiliante – tra l’opera di Boiardo e quella dell’inarrivabile Ariosto. Come se il raffinato conte di Scandiano non fosse altro che un pallido anticipatore, se non addirittura un sottoprodotto mal riuscito della macchina mirabile del Furioso.
Le cose non stanno così, e ormai lo sappiamo bene da circa mezzo secolo, cioè da quando la vita e le opere di Matteo Maria Boiardo sono tornate sotto la lente degli studiosi, che le hanno poco a poco svelate liberandole da schemi e pregiudizi inveterati. Ne hanno ricevuto nuova luce il Boiardo a modo suo umanista, traduttore insieme fedele e chiaro di Cornelio Nepote, Senofonte, Erodoto e Apuleio (tutti dal latino, beninteso), e il Boiardo lirico autore di un canzoniere amoroso più riuscito di tanti e tanti miagolii post-bembiani.
Ecco ora, a restituirci l’immagine del Boiardo nella sua quattrocentesca freschezza, un volume di Tiziano Zanato che fa idealmente il punto di questi ultimi decenni di ricerche. Al centro del volume, l’Inamoramento de
Orlando, opera emblematica nei modi stessi in cui si formò e circolò inizialmente: una composizione protrattasi lungo vari decenni, una pubblicazione dapprima parziale, poi definitiva, l’entrata in un meccanismo di produzione editoriale non ancora ben rodato per opere del genere, tanto che della prima edizione a stampa dell’opera conosciamo l’esistenza, ma non possiamo leggerne nemmeno una copia superstite; e le successive sfuggono già rapidamente al controllo dell’autore, finendo in una spirale di irrispettosi adattamenti.
La lingua del Boiardo, per quel che una simile tradizione lascia intravvedere, era ben lontana da quella cui ci hanno abituato le edizioni moderne, fondate su drastici rimaneggiamenti a base fiorentina, ben più screziata nell’accoglimento di tratti settentrionali e di quella grana linguistica ibrida e artificiale che caratterizzava la produzione delle corti italiane nel secolo XV. Per documentare il modo in cui Boiardo dà corpo ai suoi personaggi, per esempio, Zanato sceglie la scena d’amore di Brandimarte e Fiordelisa, cioè una delle pagine grazie alle quali l’eros si ambienta brillantemente nella materia delle leggende carolingie : «E la dongiella con dolce sembiante / comencia il cavalier a disarmare ; / lui mille volte la basò, davante / che se potesse un pecio de arma trare, / né trate ancor se gli ebe tutte quante / che quella abraza e non pote aspetare, / ma ancor di maglia e dele gambe armato / con essa in brazo se colcò su il prato». Ha davvero tanto senso continuare a leggere questi versi solo in funzione del confronto con l’Ariosto? Le tonalità del testo boiardesco, di continuo oscillante tra illustre e comico, tra classicheggiante e regionale (ma mai per questo grossolano o popolare) suggeriscono forse che i motivi per cui questo autore può ancora piacerci – fors’anche più che in passato – sono ben diversi da quelli per i quali, attraverso i secoli, si è cercato in lui nulla più che un surrogato di altre e più canoniche emozioni di lettura.