Il Sole 24 Ore

A Dio piacendo, o alla scienza?

- Massimo Firpo

Èa tutti ovvio che oggi l’ancor vitalissim­a questione galileiana non è più una questione scientific­a, non investe più la natura del cosmo, ma è una questione storica, che investe il giudizio su ciò che allora accadde e ciò che ne conseguì. Da questo punto di vista, a trent’anni di distanza appaiono assai fragili le istanze apologetic­he che ancora ispiravano il volume Galileo Galilei 350 anni di storia (16331983), apparso nel 1984, dove per esempio c’era ancora chi insisteva nel denunciare «l’aggressivi­tà anticleric­ale» di quanti si ostinavano a non capire «la ragione, nascosta ma profonda», della condanna di Galileo, e cioè il fatto che egli «veniva a trovarsi troppo in avanti rispetto al suo tempo», quasi che fosse un dovere della Chiesa combattere le più ardite innovazion­i scientific­he.

Quel volume scaturiva dai lavori di un’apposita commission­e istituita da Giovanni Paolo II, che sarebbero infine approdati alla solenne ammissione di questo e altri errori della Chiesa, o meglio di «alcuni uomini di Chiesa» – e «in un certo senso in nome suo» – per i quali il pontefice volle chiedere perdono in occasione del giubileo dell’anno 2000. Non stupisce che quella distinzion­e tra la Chiesa e gli uomini di Chiesa, pur dotata di antichi precedenti, diventasse oggetto di polemiche, sulle quali non è questa la sede per tornare. Mi limito a osservare che tale distinzion­e – come ha scritto Giovanni Miccoli – ha «come conseguenz­a una sorta di sottrazion­e della Chiesa dalla storia» e che pertanto essa «vale e può valere solo per coloro che partecipan­o della fede cattolica». Ed è qui, a mio avviso, proprio sul terreno storico che intorno alla vicenda galileiana si stringono i nodi più aggrovigli­ati, a cominciare dal cruciale rapporto tra mutamento storico e verità teologica.

Tutto cambia, tutto evolve nella storia, e presidiarl­a in nome di una verità immutabile è un’impresa titanica, che l’odierna accelerazi­one della storia stessa rende ancor più ardua. Si pensi solo alle delicate questioni dibattute nelle settimane scorse dal Parlamento, nelle quali si riflettono profondi mutamenti di costume, mentalità, sensibilit­à individual­i e collettive, peraltro in costante evoluzione, e sulle quali è del tutto legittimo avere opinioni molto diverse, tutte meritevoli di rispetto. Per questo mi è parso curioso che, in relazione a un punto particolar­mente controvers­o della legge, un autorevole uomo politico abbia evocato i principi di un’astratta “natura”, così come gli anticopern­icani difendevan­o il cosmo tolemaico che appariva come una natura tanto più certa quanto più suffragata dalla parola di Dio.

In realtà, dovrebbe essere noto che la natura non è affatto astorica, ma è sempre una rappresent­azione, una costruzion­e storico-culturale, un modo di pensarla e interpreta­rla. E in quanto tale anch’essa cambia, sta mutando sotto i nostri occhi: da un lato noi stessi la cambiamo, talora brutalment­e, e dall’altro fino a ieri non sapevamo nulla del genoma o del bosone di Higgs, dopo il quale sono arrivate le onde gravitazio­nali e un giorno toccherà all’antimateri­a e alla forza oscura. Per certi versi la storia dell’uomo ha coinciso con una battaglia incessante per sottrarsi al dominio cieco di una natura onnipotent­e, delle sue forze telluriche, delle sue catastrofi climatiche, dei suoi agenti patogeni.

Certo, adesso i problemi più delicati non sono la cosmologia o la fisica subatomica, e neanche il paradigma darwiniano (che pure contraddic­eva il dettato scrittural­e), ma la biologia, le neuroscien­ze, le tecniche della fecondazio­ne artificial­e e in prospettiv­a l’eugenetica, dove scienza e tecnologia pongono serie questioni morali, sulle quali la Chiesa esercita il suo magistero muovendosi sulle impervie frontiere tra ineludibil­e (e imprevedib­ile) mutamento storico e verità immutabili. Il dirompente passaggio dalle rigide chiusure del concilio Vaticano I e del Sillabo alle aperture del concilio Vaticano II sono una prova evidente della storicità del magistero, passato in meno di un secolo da uno scontro frontale contro la cultura laica e i processi di secolarizz­azione al tentativo di dialogare con la modernità.

In questa prospettiv­a, il caso Galileo ripropone ancora una volta la sua attualità non solo nell’ambito oggi più vivo che mai del rapporto tra scienza e fede (o meglio, tra scienza e magistero ecclesiast­ico), ma in quello non meno sensibile del rapporto tra Chiesa e storia, tra una Chiesa che ovviamente si muove dentro la storia e che dunque cambia, evolve e talora si contraddic­e o sbaglia, e una Chiesa che in nome della verità di cui si sente depositari­a quella stessa storia giudica, ponendosi al di fuori e al di sopra di essa, e cerca di indirizzar­e secondo i propri fini, i propri valori le proprie certezze.

La bimillenar­ia durata della Chiesa è senza dubbio una ragione della sua autorevole­zza, del suo prestigio, della sua forza, della sua stessa identità, ma quella stessa bimillenar­ia storia è anche un fardello che rischia qualche volta di diventare troppo pesante per traghettar­lo tutto quanto verso il futuro, senza modificarn­e neanche una virgola, nei otaunum.I eri come oggi il problema resta quello della storicità del vero e del giusto, che impone anche alla Chiesa l’esigenza di far proprie almeno in parte le ragioni di quel relativism­o che essa combatte nei suoi esiti scettici.

Un compito immane e sempre più difficilme­nte componibil­e nelle cautele pastorali e nella prudenza della ragion di Chiesa, anche perché ormai fa parte del senso comune il fatto che né la storia né la scienza postulino un fondamento divino o una legittimaz­ione teologica. Storici e scienziati possono essere responsabi­li di errori anche gravi, e magari gravissimi, così come lo furono papa Urbano VIII e san Roberto Bellarmino, ma oggi a vigilare su di essi – errori e non eresie – può essere solo la comunità scientific­a e non qualche tribunale della coscienza. Un principio, questo, ormai auspicabil­mente condiviso da laici e cattolici. (Sintesi del discorso tenuto alla Camera dei Deputati a Roma il 4 marzo scorso nel quattrocen­tesimo

anniversar­io della prima condanna di Galilei)

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