Joan Miró viaggiava sul riciclo
Grande mostra al Mudec dedicata all’uso fantasioso di materiali casuali prediletti dal maestro tra il 1930 e il 1980
Ci sono opere su tela, ma dipinte su una tela ruvida, non preparata, con la trama grossa e in bella evidenza, e opere su tavola, fatte però di legni di scarto, presi da imballaggi o da cassette per la frutta e utilizzati così come sono, senza alcun “belletto”. Ci sono opere dipinte su stoffe un po’ slabbrate ( vecchie lenzuola? stracci?) e altre su compensato, su carta da pacco, da macellaio o catramata oppure su rozzi cartoni dai margini strappati; una persino su un grande sacco di plastica, aperto e dipinto. Altre sono eseguite su quadri da mercatino, con zuccherosi paesaggi sui quali Miró tracciava i suoi segni ruvidi e primordiali: grafemi di un alfabeto di forme elementari, riconoscibilissime perché solo sue, ma al tempo stesso “anonime”, perché affioranti dalla caverna dell’inconscio collettivo.
È intorno all’uso eterodosso dei supporti e della materia pittorica, e al riciclo di oggetti d’uso comune per realizzare assemblaggi fantasiosi e sghembi poi fusi -con uno sberleffo- nel nobile bronzo, che ruota la mostra di Miró da poco inaugurata al Mudec. Nell’ordinarla i curatori (Rosa Maria Malet, direttore dalla Fundació Joan Miró di Barcellona e, per l'Italia, Francesco Poli) hanno ritagliato un campo d’indagine ben preciso nella vasta produzione del maestro catalano (1893-1983) offrendone così, con il centinaio di opere esposte, un’immagine non convenzionale, in linea con la sua personalità.
Lui era del resto un artista ostile a ogni convenzione e uno sperimentatore compulsivo, fino alla fine della vita. Dopo un periodo in cui dipinse opere calligrafiche, minuziose, come il celebre Autoritratto del 1919 appartenuto a Picasso ( ora nel Musée Picasso: i due erano grandi amici) o l’ancor più celebre Fattoria, 1921-1922, l’adesione al surrealismo, a Parigi nel 1924 – per Breton Miró era « il più surrealista di tutti noi » - gli schiuse nuovi orizzonti, facendogli scoprire tra l’altro le potenzialità del caso nella creazione artistica: un principio che assecondava il suo spirito libero e si attagliava a meraviglia a quella nativa spontaneità grazie alla quale saprà liberare il proprio linguaggio da ogni vincolo.
La vera svolta, propiziata dai principi del surrealismo ma potenziata dalla sua indole inquieta, avvenne però tra gli anni ‘20 e i ‘ 30, con la crisi espressiva che lo indurrà a dichiarare di voler « assassinare la pittura » . Avrebbe poi spiegato: «era una ribellione contro uno stato della mente e contro le tecniche pittoriche tradizionali. Era anche un tentativo di esprimermi mediante nuovi materiali: corteccia, fibre tessili, oggetti assemblati, collage, etc » . Intorno a questo as- sunto si sviluppa il percorso della mostra, aperta dal brano jazz Blues for Joan Miró, l’omaggio che Duke Ellington improvvisò per lui quando lo incontrò alla Fondazione Maeght di Saint- Paul- de- Vence. La prima opera esposta, Personaggi in un
bosco, è del 1931, nel pieno della crisi: di piccolo formato, esibisce le sue figure metamorfiche come galleggianti su un fondo reso indistinto dallo sfregamento del colore, che lascia affiorare la matericità della tela. In questa sezione si esplora la formazione del nuovo linguaggio espressivo di Miró, che si manifesta anche nei bellissimi disegni e acquerelli degli anni ’30 e ’40, quando l’artista annota un appunto illuminante: «pulire i pennelli impregnati d’olio sulla carta, una volta seccato il colore levigare con carta vetrata e pietra pomice e aggiungere strati di acquerello e pastello». Talora il supporto viene bagnato (con acqua ma anche con Coca Cola) e allora il segno della china sulla carta si dilata e si sfrangia, talora invece il pigmento è steso non con il pennello ma con uno straccio intriso di colore, che lo rende indistinto. In altri casi si vedono grumi e concrezioni di materia pittorica, perché «una materia e vigorosa mi pare necessaria per dare allo spettatore un colpo in pieno volto, che lo colpisca prima che subentri la riflessione».
A 80 anni, nel 1974, in vista dell’omaggio resogli dal Grand Palais di Parigi, Miró arriverà a incendiare alcuni dipinti con un fuoco da lui controllato, e a lacerare e perforare la tela. Intanto, mentre il suo alfabeto di segni (uomini e donne tradotti in pure sigle visive, uccelli, costellazioni) e la sua forza di colorista si consolidavano, sin dagli anni ’ 40 sperimentava i primi assemblaggi di oggetti. In alcuni casi la mostra mette a confronto i suoi bronzi, fusi con la tecnica antica della cera persa, con alcuni dei materiali volutamente dimessi (e dismessi: tutti rifiuti trovati nelle sue passeggiate e riuniti in quella che lui definiva provocatoriamente «la mia pinacoteca») con cui costruiva i modelli: rami e radici, piatti sbreccati, pezzi di mattoni, persino un portarotolo per la carta igienica. Accadeva anche che, una volta fusi nel bronzo, gli assemblaggi fossero dipinti con colori chiassosi, che cancellavano la nobiltà della materia: Donna e uccello, 1967, in mostra, formata dal coperchio di un pentolone, da un grosso ramo e da un oggetto indecifrabile tradotti in bronzo, è tinta di giallo, rosso e blu, con un effetto a dir poco spiazzante. Eppure, al mercante Aimé Maeght che gli domandava sconcertato «Joan, come faremo a venderla?», come testimonia in catalogo il nipote Joan Punyet Miró, lui ribatté profeticamente: «Non ti preoccupare Aimé; non dobbiamo far altro che aspettare 35 anni».
Il percorso è chiuso dalle grandi incisioni dominate dai suoi neri profondi, spesso lavorate, anch’esse, con materiali innovativi come il carburo di silicio, che genera grumi materici sulla carta. Ma nel corso della mostra è Miró stesso a spiegare il suo lavoro, grazie a interviste diffuse dai video di sette isole multimediali, nelle quali si trovano anche postazioni di realtà virtuale che consentono di compiere un “viaggio” all’interno di una delle opere esposte. E, da ultimo, per uscire occorre attraversare una suggestiva videoinstallazione sul tema del colore e della materia, che accompagna il visitatore fuori da quel mondo favoloso.