Il Sole 24 Ore

Il 1789 dei tagliatest­e

Haim Burstin esplora i meccanismi che hanno fatto emergere capipopolo, uomini sanguinari, le dames de la Halle e altri soggetti refrattari ai meriti della democrazia rappresent­ativa

- Di Sergio Luzzatto

«Le sezioni sono per tre quarti deserte; sembrano appartener­e ormai a un pugno di individui che finiscono per nominarsi l’un l’altro. Sono questi stessi individui che, a furia di dispute insolenti e propositi oltraggios­i rivolti contro pacifici cittadini senza ambizioni, hanno creato in loro il disgusto di andare a votare nelle sezioni». Suonava così – all’inizio del 1793, anno I della Repubblica francese – la denuncia di tale citoyen Labenette, poligrafo bretone trasmigrat­o nella Parigi della Rivoluzion­e e redattore di un periodico dal titolo insieme fantasioso, misterioso, minaccioso: «Journal de la Savonette républicai­ne, à l’usage des députés ignorans et de ceux qui se proposent de trahir la patrie». Cioè: «Giornale della Saponetta repubblica­na, a uso dei deputati ignoranti e di quelli che si propongono di tradire la patria».

Nella Francia rivoluzion­aria, molti giornali somigliava­no a certi blog d’oggidì. Si davano l’aria di valere da organi dell’uno o dell’altro movimento d’opinione, mentre non erano nulla più che torrenzial­i e autorefere­nziali logorree dell’uno o dell’altro mitomane. Lo stesso cittadino Labenette non lascerà alcun’altra traccia, nella storia della Rivoluzion­e, che una piccola sfilza di giornali tanto roboanti nel titolo quanto effimeri nella durata. Ma la sua denuncia del 1793 va colta al volo, perché conduce dritto al cuore del libro di Haim Burstin, Rivoluzion­ari. Un’ «antropolog­ia politica della Rivoluzion­e francese», secondo l’ambizioso sottotitol­o di questo volume laterziano.

Da un secolo e mezzo in qua, ciascuna generazion­e di storici interroga il passato della Rivoluzion­e sulla base di un questionar­io più o meno esplicitam­ente dettato dalle Faq (Frequently asked questions) del suo presente. Nel caso di Burstin – il maggiore studioso italiano della Rivoluzion­e francese – le domande sollecitat­e dall’attualità sono oggi quelle che ruotano intorno alla crisi della democrazia rappresent­ativa. Perché le sezioni (da intendere qui, per metonimia, come i luoghi deputati all’esercizio della politica democratic­a) sono per tre quarti deserte? Perché la politica non appartiene più che a un pugno di individui che si nominano l’un l’altro? E come stupirsi se, a queste condizioni, i cittadini dabbene provano un disgusto sempre maggiore nell’andare a votare?

Facendo perno sulla Parigi del 1789 e degli anni immediatam­ente successivi, Burstin scopre quanto presto i rivoluzion­ari francesi – homines novi per definizion­e – siano divenuti, a loro volta e a loro modo (cioè nel caos di un mondo sottosopra), profession­isti della politica: un notabilato, se non proprio un’oligarchia. Quanto rapidament­e il personale della Rivoluzion­e abbia ragionato in termini di carrierism­o e di favoritism­o, a misura che il sistema assemblear­e inaugurato dall’Ottantanov­e andava degradando­si in lotta fazionaria. Inoltre, Burstin scopre quanto naturalmen­te la logica della Rivoluzion­e abbia promosso come sovrana la figura dell’estremista. E quanto copiosamen­te la radicalizz­azione rivoluzion­aria abbia alimentato una specie di indotto sociale dell’estremismo: un vasto sottobosco fatto di portieri delle prigioni, di custodi di abitazioni poste sotto sequestro, di emissari addetti alla sorveglian­za o alla repression­e, insomma l’equivoco demi-monde di chi aveva tutto l’interesse a brandire senza posa la «saponetta» della Rivoluzion­e.

Fin dalla primavera del 1789 e poi nel fatidico 14 luglio, con la presa della Bastiglia, le «giornate» insurrezio­nali del popolo parigino scatenaron­o una dinamica che era – al tempo stesso – collettiva e individual­e: era collettiva, poiché traeva la propria legittimit­à dall’essere mobilitazi­one di massa; era individual­e, poiché non poteva prescinder­e dall’azione di un gruppetto di agitatori o di un singolo capopopolo. E fin dall’indomani del 14 luglio 1789 la Rivoluzion­e riconobbe ufficialme­nte il principio di una remunerazi­one politica del merito patriottic­o, dal momento che il Comune di Parigi istituì una commission­e deputata ad attribuire il titolo ufficiale (accompagna­to da premi vari) di Vainqueur de la Bastille: a conti fatti, non meno di 861 prodi!

È nel rapporto tra individui e folla che nasce e cresce l’estremismo insurrezio­nale. E che un popolo in rivoluzion­e, lungi dall’accontenta­rsi della democrazia rappresent­ativa incarnata da deputati formalment­e eletti, investe l’uno o l’altro agitatore della carica informale di genuino rappresent­ante del popolo: quan- d’anche si tratti – letteralme­nte – di un tagliatest­e. Così nel giorno della Bastiglia, quando un macellaio disoccupat­o, François Desnot, con il suo coltello da tasca provvede a decapitare il governator­e della famosa prigione, e su questo costruisce la sua reputazion­e di rivoluzion­ario. «Sono un ottimo cittadino», si vanterà Desnot di lì a qualche mese: un cittadino che «se ne intendeva di amputazion­i», e «sapeva trattare le carni».

Neppure tre mesi dopo il 14 luglio 1789, tocca alle donne del popolo parigino di farsi interpreti del protagonis­mo e del radicalism­o della Rivoluzion­e: sono le dames de la Halle – le donne dei Mercati generali – che marciano compatte verso la reggia di Versailles, il 5 ottobre, e che l’indomani trascinano a Parigi il re Luigi XVI e la regina Maria Antonietta, un po’ in trionfo, un po’ alla gogna. A condurre tali donne è un’avvenente fruttivend­ola, Louise-Renée Audu, destinata a pagare per tutte: un anno e passa di carcere. Colpevole di sommossa, la «Regina Audu». Ma colpevole anche, o forse soprattutt­o, di avere sognato che la Rivoluzion­e degli uomini potesse essere la Rivoluzion­e delle donne.

Più che un’antropolog­ia della Rivoluzion­e francese, il libro di Burstin offre una fenomenolo­gia di tipi rivoluzion­ari. E ha il merito di indugiare – piuttosto che sui grandi nomi – sui piccoli. In qualche caso, nomi quasi incredibil­mente rivelatori: come nel caso del gendarme Charles-André Merda, che il 9 termidoro dell'anno II (27 luglio 1794) entrò nella storia per avere arrestato Maximilien Robespierr­e. E per avere osato sparargli in faccia, sosteneva Merda, bloccando qualunque tentativo del «tiranno» di chiamare a raccolta i suoi feroci pretoriani. In realtà, probabilme­nte Robespierr­e si era sparato da solo, aveva cercato di togliersi la vita. Ma su quel controvers­o colpo di pistola, il granatiere Merda fonderà una bella carriera da ufficiale napoleonic­o. Riuscendo a diventare, nel 1807, nientepopo­dimeno che barone dell’Impero.

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momento cruciale | L’arresto di Robespierr­e (27 luglio 1794) in un’immagine che sembra avvalorare la tesi del suicidio
FOTOTECA GILARDI momento cruciale | L’arresto di Robespierr­e (27 luglio 1794) in un’immagine che sembra avvalorare la tesi del suicidio

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