Innovare nella tradizione N
ella storia di un Paese la comunità economica e l’imprenditore – non tanto il suo idealtipo, quanto le sue molteplici incarnazioni reali – sono gli elementi costitutivi dell’identità nazionale e compongono la pozione alchemica che ne genererà il futuro. Due libri instaurano un dialogo a distanza sulla traiettoria industriale e sociale – in fondo culturale e politica – sviluppatasi in Italia fra il boom economico e la fine del Novecento, la parziale ristrutturazione post euro e la durezza di una crisi internazionale che si protrae dal 2008 nelle foreste del capitalismo globale e che ha provocato, nel piccolo giardino italiano, la scarnificazione del tessuto industriale fino a provocare la perdita di un quinto del nostro apparato produttivo. Il primo saggio è La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale di Giacomo Becattini, l’ottantanovenne economista fiorentino che dalla sua Toscana negli anni Sessanta si accorse dei distretti industriali e che su di essi – ricorrendo alla minoritaria e snobbata cultura marshalliana – ha edificato una vera e propria scuola. Il secondo è Imprenditori cercasi. Innovare per riprendere a crescere, scritto con la giovane studiosa Flavia Faggioni da Sandro Trento, cinquantaquattrenne ordinario di Economia e gestione delle imprese all’università di Trento, già in Banca d’Italia ( dal 1990 al 2005) e già alla direzione del Centro Studi Confindustria (dal 2006 al 2007).
Qual è il nostro destino? Nella interpretazione su chi siamo e dove andiamo, alla fine, prevalgono le zone chiare o gli aloni scuri? Nel definirci, quanto conta l’occhio qualitativo-strategico e quanto la dotazione statistico- quantitativa? Il contesto analitico di entrambi i volumi è di lungo periodo. L’obiettivo è la comprensione dei processi profondi. Le cose che dicono sono diverse. Becattini riafferma la validità dei distretti, un paradigma alternativo al capitalismo finanziario e manageriale che appare coerente con la specificità – quasi la vocazione antropologica – italiana: « I pratesi, i biellesi, i carpigiani e tanti altri ceppi locali di popolazione hanno fatto qualcosa che alla maggior parte dei professori di economia appare impossibile: l’acqua del loro know- how artigiano e delle loro culture locali si è trasformata nel vino delle esportazioni e nella joie de vivre di gruppi sociali, anche di modesta estrazione». Dunque, il discorso economico si intreccia con quello culturologico. Trento e Faggioni adottano le lenti della imprenditorialità e dell’innovazione per leggere la realtà complessa e multiforme di un Paese in difficoltà, anche se assicurano « questo non è l’ennesimo libro sul declino italiano». Scrivono Trento e Faggioni: « In Italia vi è una grande quantità di lavoratori autonomi e di individui che nelle statistiche ufficiali sono definiti imprenditori, in quanto sono alla guida di una impresa, seppur piccola, ma che in realtà non fanno molta innovazione. Molto numerose sono, inoltre, nel nostro Paese, le attività che godono di rendite ( per via della scarsa concorrenza e della regolamentazione pubblica) a scapito di nuove attività innovative » .
Becattini conserva uno sguardo ottimista sulla peculiarità italiana. Sia sotto il profilo ermeneutico, con il canone dei distretti che viene collocato in un contesto internazionale segnato dal Michael Porter dei cluster e dal Paul Krugman della New Economic Geography. Sia nelle prospettive reali, perché «anche in questa Italia industriale che cade in pezzi, ci sono sezioni dell’industria manifatturiera – in particolare quelle riunite nei distretti industriali – che, nel bel mezzo della crisi, resistono e perfino si espandono » . Peraltro, secondo Becattini, sfuggendo a ogni valutazione congiunturale il modello italiano – fatto di distretti e di luoghi, di socialità e di economia – fornisce una opzione quasi di tipo ideale ai limiti della globalizzazione: « La sola alternativa che io riesco a vedere è la costruzione di una, cento, mille, un milione di coscienze di luogo, in cui, chiare essendo le conseguenze per tutti i locali, e quindi per ognuno, di ogni singolo atto, il comportamento medio si evolve. Qui l’individuo non è perduto nell’ambiente di lavoro, né è succube dell’atmosfera aziendale, ma è parte attiva di una comunità di persone insediate in un dato luogo » .
Trento e Faggioni, invece, focalizzano la riflessione sulla dimensione prettamente economica e, oltre a illustrare le diverse teorie sull’imprenditorialità e sull’innovazione fra le qua li c o n s e r v a t u t t a la sua forza il pensiero classico schumpeteriano, ricordano come la capacità di cambiare le cose in maniera radicale sia appartenuta alla storia italiana.
Nel 1946 la Piaggio brevettò la Vespa. Dopo alcuni fallimenti, Enrico Piaggio « scelse di affidare la progettazione a Corradino D’Ascanio, ingegnere aeronautico che aveva progettato vari modelli sperimentali di elicotteri; un uomo che odiava le motociclette, quindi la persona ideale per inventare qualcosa di completamente nuovo » . L’empito visionario dei Piaggio, degli Olivetti e dei Mattei è un fenomeno storico. Oggi il paesaggio industriale italiano è animato soprattutto da piccoli e medi imprenditori. Il che non è necessariamente un limite: la parcellizzazione delle catene globali del valore e la modularità delle piattaforme di produzione globale possono avere bisogno di piccole e medie i mprese altamente i nnovative. Spesso la grande azienda è burocratizzata e rigida. La questione è la specializzazione produttiva italiana: il profilo del Made in Italy classico, i cui settori « erano e sono caratterizzati da ridotte economie di scala sotto il profilo della produzione e da minore i nnovazione science-based: sono quindi quelli nei quali più facilmente si può organizzare l’impresa su piccola scala » , scrivono Trento e Faggioni. Finora le cose sono andate bene. La dimensione non è per definizione una condanna. Ma la natura intrinseca specializzativa della nostra manifattura – così declinata – potrebbe rappresentare sul lungo periodo un problema. Infatti, il puzzle della dimensione-specializzazione si compone anche di tessere come la propensione al rischio dell’imprenditore, che appare decrescente, e come la difficoltà tutta italiana di costruire ecosistemi economici e tecnologici, istituzionali e sociali prossimi alla frontiera tecnologica.