L’equilibrio dopo l’asse bipolare
La caduta del muro di Berlino, nella notte del 9-10 novembre 1989, seguita dalla riunificazione della Germania nel 1990 e dalla fine dell’Unione Sovietica nel 1991, hanno segnato una cesura fra due fasi della storia d’Europa. Ma la nozione che sia stata una svolta epocale anche nella storia del mondo può essere accolta con molti distinguo. Da questa premessa si snoda la Storia delle relazioni internazionali. Dalla fine della guerra fredda a oggi di Ennio Di Nolfo, professore emerito dell’Università di Firenze, che conclude una trilogia iniziata con il volume Dalla pace di Versailles alla conferenza di Potsdam 19191945 e con Gli anni della guerra fredda
1946-1990 (editori Laterza). Lo schema bipolare Usa-Urss, spiega Di Nolfo, « semplificava l’interpretazione della complessità degli eventi, ma era solo un ordine apparente», perché la scomparsa dell’Unione Sovietica « mostrò come sotto l’uniformità (…) fossero già state scavate profonde trincee che dividevano e dividono il mondo » . A prescindere dalla guerra fredda, infatti, il mondo era cambiato e i problemi nuovi non nascevano dal bipolarismo, bensì dal sottosviluppo, dai cambiamenti demografici, dal rapporto fra risorse e consumi.
In Europa, archiviato il confronto EstOvest, divennero oggetto di contesa i confini dell’ex blocco socialista, rispuntarono antichi nazionalismi, scoppiarono guerre nell’ex Jugoslavia, in Cecenia e nel Caucaso. L’Europa comunitaria ha cercato di rafforzare le proprie istituzioni con il varo dell’euro, quale valuta tendenzialmente affiancabile al dollaro, ma rimane ancora assillata dal problema di dare un senso a se stessa. Guardando al resto del mondo, in America Latina basta ricordare che non vi erano solo Cuba e il Nicaragua, ma anche diversi Paesi “non allineati” e quindi non dipendenti da una delle due superpotenze. L’Africa era stata teatro della “coesistenza competitiva”, ma era soprattutto punteggiata dai conflitti etnici e dagli scontri tribali, intrecciati solo dopo il 1975 al confronto Usa- Urss. Quanto all’Asia, terminata la guerra del Vietnam e circoscritta quella dell’Afghanistan, restava condizionata soprattutto da ciò che accadeva in Giappone, in Cina, in India e in Indonesia.
Negli anni successivi al 1989-1991, gli Stati Uniti si illusero di poter dominare politicamente, militarmente e finanziariamente il mondo, ma ben presto l’illusione cedette il posto alla realtà. «Si intravvede in questa nuova mentalità – osserva Di Nolfo - la consapevolezza di un futuro nel quale le relazioni internazionali saranno guidate da alcune grandi potenze e dalla loro interazione, ma si comprende pure che fra queste gli Stati Uniti intendono, con ogni probabilità, conservare una posizione di preminenza » .
Nel settore del Pacifico che, dalla fine della Seconda guerra mondiale alla vigilia del XXI secolo, era stato dominio quasi esclusivo degli Usa ( nonostante la sconfitta in Vietnam), il presidente Barack Obama ha cercato di agire per tenere alta la bandiera americana senza arrivare al confronto con la Cina, specialmente dopo che Xi Jinping, assumendo il potere a Pechino ( marzo 2013), ha annunciato la volontà di affermare il ruolo del proprio Paese in Asia, valendosi delle riserve umane, tecnologiche e finanziarie di cui dispone.
Ma l’opzione strategica “Pivot to Asia” di Obama è stata forzosamente delimitata dagli avvenimenti più recenti in Europa orientale - con la Russia sospesa dal G8 dopo l’annessione della Crimea e la crisi Ucraina - e in Medio Oriente, dove la Casa Bianca, seppure a fatica, ha lasciato intendere di considerare prioritaria la lotta contro il Califfato islamico rispetto all’uscita di scena immediata di Assad in Siria, riaprendo il dialogo con Mosca.
Anche la volontà di normalizzare le relazioni con Teheran è stata una scelta dell’amministrazione Obama, che difficilmente sarà modificata dal prossimo presidente Usa. « Nonostante le difficoltà che il moderatismo di Rouhani incontra fra i conservatori iraniani – citiamo qui un recente commento di Ennio Di Nolfo per Ispi dossier - la libertà di movimento acquistata dall’Iran, grazie al compromesso nucleare, modifica profondamente il quadro mediorientale (…) anche per gli Stati Uniti, spostando il loro interesse da un’alleanza in declino con l’Arabia Saudita verso una convergenza potenzialmente più utile con l’Iran » .