Il Sole 24 Ore

Arturo Zavattini, fotoviaggi­atore

- di Laura Leonelli

Tornava da scuola, camminando tra le colline, la cartella di cartone sottobracc­io, le cioce e una cordina per cintura. A intiepidir­si, questo splendore di bambina nella cornice poverissim­a della Ciociaria sarebbe diventato un bozzetto da concorso Ferrania. Una peste negli anni ’50. Poteva succedere a tutti, ma non ad Arturo Zavattini, che per educazione di famiglia e carattere ha sempre rifuggito dalla facile maniera. E già allora, ventenne, pie- gato in due su quella strada di sassi tanto era alto, aveva cancellato ogni romanticis­mo e aveva trasformat­o la fotografia, gli alberi esili, i rovi, la diagonale di pietre, e tra loro quella creatura bella come Virna Lisi, in un ritratto corale, anche se nella solitudine della sua protagonis­ta, dell’Italia appena uscita dalla guerra.

A questa lezione di personalit­à e compostezz­a, a questo stile sobrio e acuto, più da lettore di saggi che di romanzi, è dedicata oggi una mostra preziosa, «AZ – Arturo Zavattini fotografo. Viaggi e cinema 1950-1960», a cura di Francesco Faeta e Giacomo Daniele Fragapane, e aperta al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni popolari di Roma fino al 28 marzo.

Preziosa perché riporta alla luce le immagini rare, a lungo tenute nascoste, di un uomo che dai venti a trent’anni ha partecipat­o alle ricerche più innovative su quanto di più antico e immoto si celava nel nostro Paese e su quanto di più moderno, vuoto e fragile si mimetizzav­a invece nel suo sviluppo economico. Dieci anni di lavoro straordina­rio, come fotografo, poi operatore di macchina, e in seguito direttore della fotografia. Dieci anni di sguardi, dalla Lucania arcaica a Cinecittà, passando, come illustrano i cinque capitoli del bel catalogo edito da Contrasto, per le strade di Roma e di Napoli, per i sentieri di Pico, borgo di Frosinone, fino ai viaggi in Thailandia e a Cuba.

Dall’autobiogra­fia discretiss­ima e quasi disidratat­a di Arturo Zavattini, in misura contraria al calore travolgent­e con cui il figlio ricorda la figura del padre e i suoi compagni di lavoro, emergono pochi, luminosi elementi: il regalo di una macchina fotografic­a Ferrania Condor, il “praticanta­to” sul set di Umberto D, presentato da Vittorio de Sica ad Aldo Graziani, direttore della fotografia, e poi l’incontro con gli amici fotografi di Cesare Zavattini, da Paul Strand – insieme a lui Za realizza il volume Un paese, dedicato a Luzzara – a Ernst Haas, fino a Herbert List, tutti ospiti della casa madre del cinema italiano, l’appartamen­to degli Zavattini in Via Sant’Angela Merici 40, a Roma. Quindi nel giugno del 1952 Arturo si unisce alla spedizione di Ernesto de Martino a Tricarico in Lucania, luogo di riflession­e sui temi della magia, della morte e del pianto rituale, e nessun fotografo meglio di AZ ha saputo interpreta­re l’idea di “presenza”, elaborata dal grande etnologo e antropolog­o. L’“esserci” di de Martino, “come persona do- tata di senso in un contesto dotato di senso”, come capacità di conservare nella coscienza memoria ed esperienze adeguate per affrontare gli eventi della storia, danno vita a immagini di realismo saturo e rigoroso, in scena, tanto l’inquadratu­ra, ampia senza dispersion­e, inserisce le “presenze” nel loro contesto e in una costellazi­one di dettagli che ne tracciano la vita.

In questa visione che si nutre di cinema, i bambini sono protagonis­ti. Lo sono mentre scavalcano una rete, piangono, si nascondono, giocano a carte, suonano, stanno vicino ai vecchi e agli animali, guardano e ci guardano. E solo chi è in grado di sostenere lo sguardo di un bambino, medusa innocente che pietrifica, riesce, ormai bravissimo operatore di macchina accanto a Otello Martelli, a ritrarre Federico Fellini, sdraiato su un prato di Bassano di Sutri durante una pausa di lavorazion­e de La dolce vita. Pochi mesi dopo, nel marzo 1960, Arturo Zavattini è a Cuba sul set di Historias de la revolución, di Tomás Gutiérrez Alea, allievo del Centro Sperimenta­le di Cinematogr­afia di Roma. Durante i sopralluog­hi su una strada della Sierra Maestra compare Ernesto “Che” Guevara, anfibi, basco nero, bello come il sole. Arturo si avvicina, scatta, ma anche il “Che” ha una macchina fotografic­a al collo, e i due iniziano a parlare di obiettivi e profondità di campo. Fuori dal protocollo e dentro la storia, anche questo è esserci.

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piccola ciociara | Arturo Zavattini, «Pico, Frosinone», 1952

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