Addio genio irridente
Il suo è stato un viaggio nelle degenerazioni di un Paese che ha confuso l’educazione con un esercizio punitivo, una vessazione moralistica
Più che un grande artista-intrattenitore che abbia legato la sua fama alla realizzazione di una serie di singoli spettacoli – come pure è avvenuto – Paolo Poli è stato soprattutto la coscienza critica di una certa cultura italiana retorica e provinciale, la voce della rivolta di alcune generazioni di ex-alunni ed ex-diplomati indispettiti nei confronti di un sapere giulebboso e stucchevole, acquisito a viva forza sui banchi delle scuole di ogni ordine e grado. E il fatto che il genio irridente di Poli, nato a Firenze nel ’29, abbia incarnato anche gli umori di spettatori cresciuti e formati in vari decenni successivi non è che la riprova di come quella cultura sopravvivesse e si perpetuasse nonostante tutto.
La vera misura della sua grandezza, del ruolo in qualche modo unico che lui è riuscito a interpretare sulla scena italiana di questi ultimi decenni è data proprio dal fatto che certi fenomeni, certi vezzi, certi schemi di pensiero non potessero essere percepiti, non acquisissero autonomo risalto senza la contro-lettura al vetriolo che ne aveva dato Poli: che si trattasse di poesia o di devozione, delle rose non colte da Gozzano o degli atti miracolosi di Santa Rita da Cascia, il suo approccio sferzante svelava non tanto la qualità più o meno deteriore di certi miti o presunti tali, quanto il cattivo uso che se ne faceva nella nostra società.
Scorrere l’elenco dei suoi titoli vuole dire tracciare uno straordinario catalogo di «buone cose di pessimo gusto», compiere un viaggio nelle degenerazioni di un Paese che ha spesso confuso l’apprendimento con un esercizio punitivo, l’educazione dei giovani con una vessazione moralistica, il bello scrivere con uno sfoggio muscolare di buoni sentimenti. Fra le sue “specialità” c’erano le intramontabili filastrocche e canzonette dell’Italia fascista, le spigolature di vecchi sussidiari, gli accanimenti edificanti delle maestre di una volta. Ma tutto ciò che sapeva di stereo- tipo, di mozione degli affetti finiva prima o poi nelle sue feroci alchimie linguistiche, dalla Nemica di Niccodemi a Fogazzaro a Carolina Invernizio.
Come spiegare – al di là delle sue impareggiabili qualità istrioniche, dell’intelligenza compositiva, dell’eleganza di un modo di porsi - il segreto di una freschezza, di una longevità creativa che ha attraversato i decenni senza mai incorrere in pause o flessioni? Probabilmente l’arguzia corrosiva con cui si è accanito sui sacri testi cari ai padri della patria letteraria ha avuto qualcosa di liberatorio, come l’affrancamento dal peso di un oscuro passato. Ma più ancora avrà forse influito il ruolo, che egli si è assunto, di sentinella della sensibilità collettiva, di monito vivente a non abbassare mai la guardia, di fronte a un popolo - quale tuttora noi siamo - per cui l’enfasi parolaia e l’orgia delle facili emozioni sono sempre in agguato dietro l’angolo.
E poi ha contato, ovviamente, la finezza spumeggiante di uno stile inconfondibile, del tutto personale. Cosa è stato, esattamente - teatralmente parlando - Paolo Poli? Difficile dare una definizione univoca. Ha esordito recitando Beckett alla Borsa di Arlecchino di Genova, ha fatto il mimo alla Rai, ha indossato lo smoking del fine dicitore. Si è scatenato in sfrontati travestimenti femminili in quei suoi spettacoli che ricalcavano la struttura dei vecchi varietà. La formula era, grosso modo, sempre la stessa, i “siparietti”, le macchiette in parrucca e crinoline, per lo più nelle amene vesti di signorine d’altri tempi, i quattro boys pronti a sottoporsi a improbabili metamorfosi, da orfanelle, da suore, da gattine, in un groviglio inestricabile in cui convergevano, un po’ per gioco e un po’ sul serio, echi del teatro di ricerca e sincero omaggio alla tradizione, parodia della rivista e autentico amore della citazione.
E proprio in questa innata capacità di toccare corde diverse – e di rivolgersi a spettatori dalle diverse provenienze e aspettative – stava la chiave di una popolarità che ha trasceso le epoche e le mode, la ragione di un successo che prodigiosamente, fino all’ultimo, non è venuto mai meno.