Rezza e le zone più buie
Come si può raccontare Anelante , il nuovo spettacolo di Flavia Mastrella e Antonio Rezza? Nel loro teatro non c’è trama, non c’è un contenuto in qualche modo scindibile dalla sua realizzazione scenica: le creazioni dei due sono un tutto organico, sono azione allo stato puro, magmatica, primordiale. Sono una sorta di evento naturale, che segue un proprio imprevedibile corso. Per certi versi, Anelante arriva a esiti ancor più estremi: se Fratto X lasciava infatti qualche vago appiglio, qui sparisce definitivamente ogni residuo filo conduttore. Questo effetto destabilizzante comincia già da quelle stravaganti forme astratte con cui la Mastrella arreda l’habitat nel quale Rezza si muove. In Anelante ci sono delle specie di scomparti a righe vistosamente dipinte, come delle casette o dei teatrini dei burattini, dai cui pertugi compaiono i volti o altre parti anatomiche degli attori, e una croce stilizzata su un lato. Alle performance di Rezza non servono ambienti definiti, in cui si svolgano delle vicende reali, ma non- luoghi che facciano da mero contorno al suo non- senso.
Questo apparato di immagini anarchicamente svincolate dal contesto è il perfetto equivalente della rivolta a ogni logica comune con cui Rezza usa il proprio corpo, la propria gestualità frenetica. Lui punta a un delirio fisico, a un’incontenibile energia motoria, lei a enigmatiche costruzioni plastiche e cromatiche, ma i loro talenti si intrecciano inestricabilmente. In quei paesaggi amorfi Rezza, partendo da labili pretesti, passa vorticosamente da una situazione all’altra fino a provocare un’impressione di totale smarrimento in chi lo segue. Quali sono, in effetti, gli argomenti di Anelante? All’inizio ci sono delle paradossali divagazioni sulla matematica, sulla scienza, su Pitagora e Newton. C’è un perfido teorema in base al quale «quando sei vecchio la somma dei cateteri sovrasta di gran lunga l’ipotenusa». Si passa poi a sproloquiare beffardamente sul G20, su Freud e su folli incubi notturni buffamente incestuosi, al centro dei quali appare persino il nonno. Si parla di Dio con un certo sarcasmo, mentre un Cristo stralunato mima una crocifissione asimmetrica, sghemba. Di questi temi Rezza straparla, blatera, sghignazza. Ma soprattutto li agisce, li fa vivere alla sua maniera nell’arena della ribalta: mentre stravolge suoni e parole, saltella come un canguro, striscia come un enorme feto, traccia insondabili geometrie sul pavimento. La sua vera comunicativa, la carica di rabbia e di disgusto che esprime passa tutta da lì, da quegli scatti esagitati, da quella distorta maschera facciale. I quattro attori che stavolta lo affiancano sono solo un prolungamento, o uno specchio deformante, del suo instancabile agitarsi. In Anelante non arretra di fronte a nulla per graffiare i nervi dello spettatore. Si scaccola il naso, si mostra nudo, esibisce una serie di culi protesi dalle finestrelle della giocosa installazione. Vuole suscitare delle reazioni, sia pure di fastidio, di disagio. Il fastidio fisico che provoca è un riflesso del disagio nei confronti della vita. La gente si sbellica dalle risa, e francamente non capisco perché. Non trovo nulla di così esilarante nella sua vena caustica: da vero clown, Rezza tocca invece delle corde crudeli, delle zone buie dell’inconscio.
Anelante ci parla di noi, di cosa siamo, della bieca e un po’ ottusa sostanza carnale di cui siamo fatti. Porta cinicamente allo scoperto il peggio che abbiamo dentro, ossessioni, fantasmi famigliari, frutti avvelenati della nostra società. Ma la platea non sembra accorgersene, lo sommerge di risate, e lui non si sottrae a questo rito sacrificale, lo alimenta con una costante offerta di sé. È impressionante la padronanza con cui governa quel caos organizzato, senza mai perderne il controllo. E il suo furore iconoclasta non ha un attimo di cedimento, mantiene la stessa acre tensione dal principio alla fine.
– Renato Palazzi
Anelante di Flavia Mastrella e Antonio Rezza. Visto a Milano, al Teatro Elfo Puccini