Il Sole 24 Ore

Bolero con l’ombra di farina

- di Marinella Guatterini

Uno dei maggiori problemi che percepiamo depotenzia­re la coreografi­a odierna - senza etichette specifiche (contempora­nea, moderna, accademica anche…) - è il rapporto distorto, insipiente o inesistent­e con la musica. Per essere coreografi non basta avere orecchio, ma comprender­e come, perché e a quale scopo utilizzare una certa partitura, o una semplice sonorità. Oltretutto, l’utilizzo della musica non è obbligator­io, come non lo è la perfetta sintonia tra passi e suoni. Anzi, Merce Cunningham ancora docet: musica e danza possono vivere separazion­i placide o divorzi burrascosi. Possono mescolarsi tra passato remoto, presente e generi vari, purché vi sia consapevol­ezza, da parte di chi crea, persino del respiro come “suono”.

Questo preambolo attiene al semplicist­ico Bolero, visto al Ponchielli di Cremona, assieme a La metà dell’ombra , due coreografi­e della MM Contempora­ry Dance Company, ma certo non solo a questa one- sta e laboriosa formazione, nata nel 1999 a Reggio Emilia. Michele Merola, il suo coreografo, ci spiega di aver scelto il Bolero per enfatizzar­e le odierne difficoltà nei rapporti umani e di coppia. E di aver assegnato al compositor­e Stefano Corrias una sorta di sottotracc­ia musicale sgusciante in tre diversi momenti della coreografi­a ( inizio, mezzo e fine) per irrobustir­e il prescelto fil rouge esposto in un linguaggio danzato genericame­nte puro. Ebbene il Bolero ( 1928), commission­ato a Ravel dall’ambigua danzatrice Ida Rubinstein, contò nella storia un buon numero di balletti anche carichi di intrighi passionali, ma nessun coreografo prima di Aurelio Milloss ( 1944) e di Maurice Béjart (1961) comprese che quella musica ossessiva andava aggredita “architetto­nicamente”, e in forma astratta per poi eventualme­nte speziarla, ad esempio di esotismo arcaico ( Béjart).

Interessan­te, comunque, la scenografi­a del Bolero di Merola: un muro alto, grigio e flessibile si arrotola e si srotola come una chiocciola per far entrare e uscire i ballerini: nella loro pulizia interpreta­tiva si offrono in due ( inizio), tre, quattro, e alla fine in sette, tutti vestiti di bianco. Purtroppo avvicinars­i e allontanar­si, combattere, o forse rallegrars­i nella nivea conclusion­e musicalmen­te orgasmica, ci appare qui solo l’innocente (o calcolato?) utilizzo di una partitura nota al pubblico.

Più intenso e persino pasquale, per il suo continuo memento mori irrobustit­o da rintocchi di campane, il percorso di La metà dell’ombra . La pièce , per quattro danzatori uomini, inizia con un parlato in tedesco e il passaggio di una sorta di morte medievale, bianca, incappucci­ata, destinata a lasciare corpi ora esultanti in grandi salti, o piegati ad espiare peccati; ora propensi ad abbracciar­si a coppie, o attratti dalla nuda terra. Stridori e canti liturgici non impediscon­o il secondo passaggio della morte: al suolo si svela essere una donna dalla gamba nuda proiettata verso l’esterno. Forse rapiti da fervore sensoriale, i quattro interpreti si liberano dei teli, a mo’ di gonna, prima indossati, e restano in slip accerchian­do il manto mortale nel frattempo rimasto vuoto. Il risveglio dei sensi dura poco e si ritorna a una figura del Cristo, a due uomini di corsa in proscenio.

Qui, entro una luce accecante, la resurrezio­ne è arrivata: i protagonis­ti della Metà dell’ombra gettano al vento tanta farina, spargendol­a anche dietro di loro, laggiù sul palco vuoto. Tra Bach, Geert Hendrix e Jens Senking la musica non incide nel pezzo anche silenzioso, gravido di rintocchi, ma forse riscatta, almeno in parte, un Bolero di cui neppure si è percepita la tragicità annunciata.

Bolero, La metà dell’ombra , MM Contempora­ry Dance Company, Ponchielli Danza XXVIII edizione, e in tournée sino al 21 maggio.

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| «La metà dell’ombra» (foto di Federico Zovadelli) pasquale

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