Troppo Gilliam per Cellini
Non c’è Terry Gilliam e il pubblico festante dell’Opera di Roma lo cerca invano. No, non si è nascosto tra i funamboli, che hanno invaso fino in alto la scena, e nemmeno nella testa gigante del Perseo dorato, che ha dominato tutto lo spettacolo. Pazienza. Evidentemente alla terza ripresa dell’acclamato Benvenuto Cellini di Berlioz, dopo i successi di Londra 2014 e di Amsterdam 2015, il debutto a Roma è passato in subordine, nell’agenda del regista dei Monty Python. Grande, geniale, estroso e imprevedibile al cinema. Un po’ meno col teatro d’opera.
Qui non inventa, decora. Certo, sono decori che lasciano a bocca aperta, i suoi. Che fanno anche sorridere: l e natiche scorporate in primo piano dalla statua del Cellini, messe ben in evidenza nel suo studio; il teatrino da avanspettacolo con la parodia dell’orafo dongiovanni, grasso e con gli attributi esibiti; due mascheroni pupazzi, a ricordarci che l’opera si svolge a carnevale (e il crescendo del carnevale è assai ben costruito) e spari di coriandoli colorati, a invadere la sala. Mai visti così tanti, nemmeno nelle famose nevicate zeffirelliane di Bohème.
Ma decora Gilliam, con fine arte orafa. Non osa andare oltre la lucente superficie. Forse l’opera non è il suo terreno. Forse potrebbe tentare un altro autore, oltre ai due Berlioz ( Cellini e Faust). Dalla sua lettura esce prevalentemente il lato comico della drammaturgia. Mentre la complessità di questa audace e gigantesca partitura - datata 1838, uno dei grandi fiaschi della storia delle esecuzioni parigine - resta tutta nelle mani del direttore, Roberto Abbado e dell’ottima compagnia di canto, capeggiata dalla nervosa e graffiante tenorilità di un rodato John Osborn.
Abbado scandaglia e sottolinea con gesto da incisore tutte le novità dell’orchestra del trentacinquenne Berlioz, coraggioso e controcorrente, alla ricerca di impasti che rompessero il tessuto consolidato ma trito dell’Accademia di Francia. Nel suo Cellini la varietà è la parola d’ordine, e dal podio questo gusto per la sorpresa viene meticolosamente assecondato. Sempre con classe, senza eccessi o tentazioni dimostrative. Un manipolo di coristi sta in buca, eroicamente alla spalle dell’orchestra, e l’effetto stereofonico affiora arricchito, geniale. La scena dei maestri orafi, prima dell’orgia finale del primo atto, anticipa il passo nostalgico e fiero dei wagneriani Maestri Cantori.
Il successo caloroso per tutti, a sala piena, è il quinto “centro”, al giro di boa della stagione. Gli applausi premiano Osborn, il severo Balducci di Nicola Ulivieri, il buffonesco Papa di Marco Spotti, il tonante Fieramosca di Alessandro Luongo, il querulo Ascanio di Varduhl Abrahamyan e soprattutto la rivelazione della prima, Mariangela Sicilia, dalle colorature rossiniane. Tanti stranieri, tanti giovani. Andare all’Opera a Roma è sempre più chic.
Benvenuto Cellini di Berlioz; direttore Roberto Abbado, regia di Terry Gilliam; Roma, Teatro dell’Opera, fino al 3 aprile