Lampo di memoria
Con Umberto Eco scompare il suo mondo mentale di connessioni e dati assai più ricco della RAM di qualunque computer
Ii piatti nel baule
ntelligenza è vedere legami tra cose lontane. È capacità di connessione. Ma per connettere, bisogna possedere. Bisogna avere una memoria in cui è contenuta la maggiore quantità possibile di materiale (chiamiamole informazioni, dati, nozioni o cose, mi fa uguale). Senza quella massa di materiale non si può operare nessuna connessione. Sarebbe come voler fare una torta avendo la dispensa vuota: ovvio che se mancano gli ingredienti, la torta non viene.
Leggere, studiare, esercitare la curiosità in ogni campo per tutta la vita porta a costituire la dispensa mentale, la memoria individuale, la personale Ram cui attingere per creare qualcosa di nuovo: un pensiero, un’idea, una teoria, un’opera critica o artistica.
Poi, quella dispensa può essere aperta e manifesta, oppure chiusa e nascosta. Voglio dire che il sapere può essere conscio o inconscio. Se siamo consapevoli di quel che abbiamo appreso, possiamo mostrare il nostro sapere. Ma se ne siamo inconsapevoli, non saremo in grado di mostrare nulla. Abbiamo incamerato dati che non sappiamo di avere, che sono rimasti a uno stadio inconscio. Quei dati sono in noi, si sono depositati nella nostra Ram, ma è come se non vi avessimo accesso.
Prendiamo un servizio di piatti e un baule. Se tu non sai (o hai dimenticato) che nel baule c’è un servizio di piatti (per esempio ereditato dalla vecchia zia), non andrai mai a cercarlo ed è come se tu non l’avessi: infatti, se ti servissero mai dei piatti, te li andresti a comprare nuovi. Puoi solo sperare nel caso: magari un giorno vai in soffitta e ti viene l’uzzolo di aprire quel baule, chiuso da trent’anni, e trovi i piatti.
Sembrerà una scoperta. In effetti lo è: abbiamo alla lettera scoperchiato il baule e trovato quel che c’era dentro. Si “trova” solo quel che c’è e non sapevamo ci fosse. Nel senso antico di trovare, invenire.
Dunque per “inventare”, bisogna aver dimenticato.
l’anima dislocata
Umberto Eco è grande perché possedeva (conteneva in sé) un materiale sterminato. E sapeva fare connessioni. Più si posseggono dati (nozioni?), più legami, lampi, analogie inedite, impreviste, strabilianti, si possono istituire. Non mi viene in mente un solo altro nome, in Italia, che sia, per questa ragione, paragonabile a Eco. E spostandomi ai Paesi esteri non è tanto diverso (forse direi George Steiner). Anche per questo siamo addolorati: perché con Eco non scompare solo lui, ma anche il suo mondo mentale, quell’incredibile Ram che si portava dentro. Ci saranno ancora i ndividui dotati di una tale Ram? Qualcuno sarà capace di contenere in sé tutta quella massa di nozioni, informazioni, saperi?
Oggi ci affidiamo alla memoria esterna di un computer: la Ram è in lui, non serve che sia in noi. Oggi esterna- lizziamo i dati, orribile verbo. Portiamo tutto fuori di noi, e vi accediamo, comodamente. Sarebbe come dislocare l’anima, e andarla a trovare, ogni tanto, per far due chiacchiere. Non ci sembrerebbe d’aver perso qualcosa? O troveremmo carino andare a cena con la propria anima? Naturalmente a lume di candela, Psiche docet. Pregi e difetti dello sdoppiarsi.
Però, permettetemi un pensierino che scardina il meraviglioso pareggio appena suggerito, torniamo ai due a cena: l’anima e l’uomo senz’anima. Non vi sembrerebbe un po’ vuoto quest’ultimo? E troppo univocamente spirituale l ei? Non era meglio un buon connubio delle parti, una sana convivenza?
Tornando a noi. Non importa, abbiamo una Ram gigantesca collettiva. Non è più individuale, d’accordo. Vuol dire che nessuno avrà più la sua personale (e solo sua) memoria cui attingere. Pazienza, in fondo era piccolina... Abbiamo comunque la possibilità di fare connessioni e vedere legami tra cose lontane, e in più questa capacità si è fatta gigantesca. Avremo un’intelligenza collettiva, dunque. Ma... C’è un ma, secondo me. Non avremo più la felicità individuale di provare soddisfazione avendo creato, ognuno di noi, nel suo piccolo, un legame; avendo fatto scoccare una scintilla, illuminare il buio con un lampo improvviso.
A proposito, vi ricordate Lampo di Pascoli? Non c’entra niente, ma mi viene da ricordarlo (potenza delle connessioni individuali?):
(...) bianca bianca nel tacito tumulto una casa apparì sparì d’un tratto; come un occhio che, largo, esterrefatto, s’aprì si chiuse, nella notte nera.
Ecco, quell’occhio che si apre e si chiude su quella casa bianca che appare e dispare, era il nostro, piccolo, individualissimo occhio che scopre, inventa, rivela.
Invece ora più niente occhio. Più niente lampo. Più niente Archimede col cappello pensatore in testa (fatto a nido), e la lampadina che gli si accende: fine di quel fumetto. Avremo una felicità anch’essa collettiva, certo, come la memoria, l’intelligenza e la felicità.
Sì, ma non riesco a figurarmela: non riesco a visualizzarla in una figura, alla lettera. Mi è difficile immaginare un sentimento di felicità, se al singolo toccherà soltanto un piccolo punto del processo creativo: metti che il singolo istituisca un legame, uno dei diecimila necessari per produrre un’opera nuova, qualcosa di originale; non arriverà al prodotto finale, forse non saprà nemmeno che qualcuno ci è arrivato, anche grazie al suo minuscolo tassello.
E colui che compirà il passo finale e otterrà l’opera nuova sarà anch’egli inconsapevole, e del processo, e del risultato ultimo: per lui sarà semplicemente un ennesimo legame, un link. Chi sarà la mente unica che raccoglie e interpreta, che è consapevole di tutti gli infiniti e collettivi passaggi? Chi sarà più Umberto Eco? E soprattutto, se anche arrivassimo alla mente unica che raccoglie il senso finale, all’intelligenza collettiva che sa anche provare felicità (collettiva, naturalmente), temo che mancherebbe sempre un ingrediente, che secondo me è imperdibile e che Umberto eco non a caso possedeva al massimo grado: l’ironia. E ancor di più, l’autoironia.
Solo se è il singolo ad arrivare alla creazione finale, sì che non si perde nessun passaggio, solo nel momento del personale eureka, tutto si può ribaltare. Solo quel singolo può diventare ironico.
Mi è davvero difficile immaginare un’autoironia collettiva. Con tutte le migliori intenzioni, a questo non arrivo ancora.
esibizionismo accademico
Non amo più le bibliografie. Quelle este- se liste di titoli, autori, case editrici, anni di pubblicazioni.
Quelle appendici finali a un libro, una tesi, un articolo, in cui l’autore deve dimostrare di aver studiato e di aver preso in considerazione i libri e gli articoli degli altri, in cui a loro volta gli altri dichiarano, nella loro bibliografia finale, di aver studiato e di aver preso in considerazione gli articoli e i libri degli altri.
Mi sembra un mostrare i muscoli. Manifestazioni di sé. Esibizioni di sapere. Erudizione.
Ma soprattutto la bibliografia è un gesto plateale, in cui è troppo palese il fine, in genere accademico: entrare a far parte dell’accademia, parlare tutti quel linguaggio, citarsi a vicenda, per ottenere posti, carriere, poltrone, prestigio. Accademico.
Non dico certo che non si debba studiare, frequentare i libri altrui, anzi. Bisogna, prima di scrivere alcunché, leggere i libri del passato, i classici del pensiero, i grandi che ci hanno preceduto. Nonché leggere il più possibile i nostri contemporanei, visto che siamo immersi in un tempo che ci accomuna, e siamo ognuno parte di ogni altro.
Dico però che sarebbe bello riuscire ad affrancarci dalle bibliografie. Sono il segno di un nostro asservimento. Non esibire le letture, le quali certo che devono esserci, alla base di ogni studio, ma non pervicacemente citate. Bisognerebbe darle per scontate. Magari elencare solo i nomi degli autori che ci hanno aiutato, ispirato, arricchito. Così, i loro nomi alla rinfusa.
Per ringraziarli. Senza altro fine.
due bacchette magiche
Difficile incontrare qualcuno che si stacchi dal pensiero comune e pensi per conto suo, prendendosi l’onere (ma anche la felicità) di avere pensieri solo suoi. Il prezzo è troppo alto: essere esclusi, trascurati, sentirsi soli.
Nessuno vuol sentirsi solo, oggi che la parola chiave è gruppo, condivisione.
Un’amica psicologa mi ha parlato degli esperimenti sul conformismo di Solomon Asch, che non conoscevo. Quel che ho capito è questo: si mostrano a un gruppo di dieci persone due bacchette, una per esempio di quindici centimetri e una di diciotto, e si chiede qual è la più lunga.
Di questo gruppo di persone, solo una è quella che deve essere esaminata, le altre nove sono d’accordo a mentire e dicono che le due bacchette sono lunghe uguali. Ebbene, la decima persona dirà lo stesso.
Chissà quali sconvolgimenti mentali abiteranno nella sua mente in quel momento: è evidente che una bacchetta è più lunga dell’altra, ne è sicuro, dovrebbe dirlo. Eppure, siccome tutti dicono il contrario, anche quella persona non avrà nessuna esitazione a dire il contrario. Come gli altri. Per uniformarsi agli altri (portare l’uniforme!).
La realtà, i dati oggettivi vanno a pallino. Figuriamoci il nostro personale punto di vista, il nostro particolare e originale pensiero!
Teniamo così tanto a essere inclusi, a sentirci parte del gruppo, che rinneghiamo l’evidenza, anche un’evidenza così eclatante. Figuriamoci se non rinneghiamo noi stessi!
Siamo ai soliti vestiti dell’Imperatore. Se i sudditi dicono che il re non è nudo, non lo è, e non ha più importanza che lo sia.
Ma almeno lì c’era l’Imperatore, era una questione di potere, di favori. Forse anche di paura. Qui invece c’è solo il gruppo, l’ammasso i ndistinguibile di persone come noi: è soltanto di loro che c’importa, oggi, è al loro parere e alla loro approvazione che teniamo.
La verità oggettiva, e il pensiero indipendente, possono fare fagotto.