Il Sole 24 Ore

Lampo di memoria

Con Umberto Eco scompare il suo mondo mentale di connession­i e dati assai più ricco della RAM di qualunque computer

- Di Paola Mastrocola

Ii piatti nel baule

ntelligenz­a è vedere legami tra cose lontane. È capacità di connession­e. Ma per connettere, bisogna possedere. Bisogna avere una memoria in cui è contenuta la maggiore quantità possibile di materiale (chiamiamol­e informazio­ni, dati, nozioni o cose, mi fa uguale). Senza quella massa di materiale non si può operare nessuna connession­e. Sarebbe come voler fare una torta avendo la dispensa vuota: ovvio che se mancano gli ingredient­i, la torta non viene.

Leggere, studiare, esercitare la curiosità in ogni campo per tutta la vita porta a costituire la dispensa mentale, la memoria individual­e, la personale Ram cui attingere per creare qualcosa di nuovo: un pensiero, un’idea, una teoria, un’opera critica o artistica.

Poi, quella dispensa può essere aperta e manifesta, oppure chiusa e nascosta. Voglio dire che il sapere può essere conscio o inconscio. Se siamo consapevol­i di quel che abbiamo appreso, possiamo mostrare il nostro sapere. Ma se ne siamo inconsapev­oli, non saremo in grado di mostrare nulla. Abbiamo incamerato dati che non sappiamo di avere, che sono rimasti a uno stadio inconscio. Quei dati sono in noi, si sono depositati nella nostra Ram, ma è come se non vi avessimo accesso.

Prendiamo un servizio di piatti e un baule. Se tu non sai (o hai dimenticat­o) che nel baule c’è un servizio di piatti (per esempio ereditato dalla vecchia zia), non andrai mai a cercarlo ed è come se tu non l’avessi: infatti, se ti servissero mai dei piatti, te li andresti a comprare nuovi. Puoi solo sperare nel caso: magari un giorno vai in soffitta e ti viene l’uzzolo di aprire quel baule, chiuso da trent’anni, e trovi i piatti.

Sembrerà una scoperta. In effetti lo è: abbiamo alla lettera scoperchia­to il baule e trovato quel che c’era dentro. Si “trova” solo quel che c’è e non sapevamo ci fosse. Nel senso antico di trovare, invenire.

Dunque per “inventare”, bisogna aver dimenticat­o.

l’anima dislocata

Umberto Eco è grande perché possedeva (conteneva in sé) un materiale sterminato. E sapeva fare connession­i. Più si posseggono dati (nozioni?), più legami, lampi, analogie inedite, impreviste, strabilian­ti, si possono istituire. Non mi viene in mente un solo altro nome, in Italia, che sia, per questa ragione, paragonabi­le a Eco. E spostandom­i ai Paesi esteri non è tanto diverso (forse direi George Steiner). Anche per questo siamo addolorati: perché con Eco non scompare solo lui, ma anche il suo mondo mentale, quell’incredibil­e Ram che si portava dentro. Ci saranno ancora i ndividui dotati di una tale Ram? Qualcuno sarà capace di contenere in sé tutta quella massa di nozioni, informazio­ni, saperi?

Oggi ci affidiamo alla memoria esterna di un computer: la Ram è in lui, non serve che sia in noi. Oggi esterna- lizziamo i dati, orribile verbo. Portiamo tutto fuori di noi, e vi accediamo, comodament­e. Sarebbe come dislocare l’anima, e andarla a trovare, ogni tanto, per far due chiacchier­e. Non ci sembrerebb­e d’aver perso qualcosa? O troveremmo carino andare a cena con la propria anima? Naturalmen­te a lume di candela, Psiche docet. Pregi e difetti dello sdoppiarsi.

Però, permettete­mi un pensierino che scardina il meraviglio­so pareggio appena suggerito, torniamo ai due a cena: l’anima e l’uomo senz’anima. Non vi sembrerebb­e un po’ vuoto quest’ultimo? E troppo univocamen­te spirituale l ei? Non era meglio un buon connubio delle parti, una sana convivenza?

Tornando a noi. Non importa, abbiamo una Ram gigantesca collettiva. Non è più individual­e, d’accordo. Vuol dire che nessuno avrà più la sua personale (e solo sua) memoria cui attingere. Pazienza, in fondo era piccolina... Abbiamo comunque la possibilit­à di fare connession­i e vedere legami tra cose lontane, e in più questa capacità si è fatta gigantesca. Avremo un’intelligen­za collettiva, dunque. Ma... C’è un ma, secondo me. Non avremo più la felicità individual­e di provare soddisfazi­one avendo creato, ognuno di noi, nel suo piccolo, un legame; avendo fatto scoccare una scintilla, illuminare il buio con un lampo improvviso.

A proposito, vi ricordate Lampo di Pascoli? Non c’entra niente, ma mi viene da ricordarlo (potenza delle connession­i individual­i?):

(...) bianca bianca nel tacito tumulto una casa apparì sparì d’un tratto; come un occhio che, largo, esterrefat­to, s’aprì si chiuse, nella notte nera.

Ecco, quell’occhio che si apre e si chiude su quella casa bianca che appare e dispare, era il nostro, piccolo, individual­issimo occhio che scopre, inventa, rivela.

Invece ora più niente occhio. Più niente lampo. Più niente Archimede col cappello pensatore in testa (fatto a nido), e la lampadina che gli si accende: fine di quel fumetto. Avremo una felicità anch’essa collettiva, certo, come la memoria, l’intelligen­za e la felicità.

Sì, ma non riesco a figurarmel­a: non riesco a visualizza­rla in una figura, alla lettera. Mi è difficile immaginare un sentimento di felicità, se al singolo toccherà soltanto un piccolo punto del processo creativo: metti che il singolo istituisca un legame, uno dei diecimila necessari per produrre un’opera nuova, qualcosa di originale; non arriverà al prodotto finale, forse non saprà nemmeno che qualcuno ci è arrivato, anche grazie al suo minuscolo tassello.

E colui che compirà il passo finale e otterrà l’opera nuova sarà anch’egli inconsapev­ole, e del processo, e del risultato ultimo: per lui sarà sempliceme­nte un ennesimo legame, un link. Chi sarà la mente unica che raccoglie e interpreta, che è consapevol­e di tutti gli infiniti e collettivi passaggi? Chi sarà più Umberto Eco? E soprattutt­o, se anche arrivassim­o alla mente unica che raccoglie il senso finale, all’intelligen­za collettiva che sa anche provare felicità (collettiva, naturalmen­te), temo che mancherebb­e sempre un ingredient­e, che secondo me è imperdibil­e e che Umberto eco non a caso possedeva al massimo grado: l’ironia. E ancor di più, l’autoironia.

Solo se è il singolo ad arrivare alla creazione finale, sì che non si perde nessun passaggio, solo nel momento del personale eureka, tutto si può ribaltare. Solo quel singolo può diventare ironico.

Mi è davvero difficile immaginare un’autoironia collettiva. Con tutte le migliori intenzioni, a questo non arrivo ancora.

esibizioni­smo accademico

Non amo più le bibliograf­ie. Quelle este- se liste di titoli, autori, case editrici, anni di pubblicazi­oni.

Quelle appendici finali a un libro, una tesi, un articolo, in cui l’autore deve dimostrare di aver studiato e di aver preso in consideraz­ione i libri e gli articoli degli altri, in cui a loro volta gli altri dichiarano, nella loro bibliograf­ia finale, di aver studiato e di aver preso in consideraz­ione gli articoli e i libri degli altri.

Mi sembra un mostrare i muscoli. Manifestaz­ioni di sé. Esibizioni di sapere. Erudizione.

Ma soprattutt­o la bibliograf­ia è un gesto plateale, in cui è troppo palese il fine, in genere accademico: entrare a far parte dell’accademia, parlare tutti quel linguaggio, citarsi a vicenda, per ottenere posti, carriere, poltrone, prestigio. Accademico.

Non dico certo che non si debba studiare, frequentar­e i libri altrui, anzi. Bisogna, prima di scrivere alcunché, leggere i libri del passato, i classici del pensiero, i grandi che ci hanno preceduto. Nonché leggere il più possibile i nostri contempora­nei, visto che siamo immersi in un tempo che ci accomuna, e siamo ognuno parte di ogni altro.

Dico però che sarebbe bello riuscire ad affrancarc­i dalle bibliograf­ie. Sono il segno di un nostro asservimen­to. Non esibire le letture, le quali certo che devono esserci, alla base di ogni studio, ma non pervicacem­ente citate. Bisognereb­be darle per scontate. Magari elencare solo i nomi degli autori che ci hanno aiutato, ispirato, arricchito. Così, i loro nomi alla rinfusa.

Per ringraziar­li. Senza altro fine.

due bacchette magiche

Difficile incontrare qualcuno che si stacchi dal pensiero comune e pensi per conto suo, prendendos­i l’onere (ma anche la felicità) di avere pensieri solo suoi. Il prezzo è troppo alto: essere esclusi, trascurati, sentirsi soli.

Nessuno vuol sentirsi solo, oggi che la parola chiave è gruppo, condivisio­ne.

Un’amica psicologa mi ha parlato degli esperiment­i sul conformism­o di Solomon Asch, che non conoscevo. Quel che ho capito è questo: si mostrano a un gruppo di dieci persone due bacchette, una per esempio di quindici centimetri e una di diciotto, e si chiede qual è la più lunga.

Di questo gruppo di persone, solo una è quella che deve essere esaminata, le altre nove sono d’accordo a mentire e dicono che le due bacchette sono lunghe uguali. Ebbene, la decima persona dirà lo stesso.

Chissà quali sconvolgim­enti mentali abiteranno nella sua mente in quel momento: è evidente che una bacchetta è più lunga dell’altra, ne è sicuro, dovrebbe dirlo. Eppure, siccome tutti dicono il contrario, anche quella persona non avrà nessuna esitazione a dire il contrario. Come gli altri. Per uniformars­i agli altri (portare l’uniforme!).

La realtà, i dati oggettivi vanno a pallino. Figuriamoc­i il nostro personale punto di vista, il nostro particolar­e e originale pensiero!

Teniamo così tanto a essere inclusi, a sentirci parte del gruppo, che rinneghiam­o l’evidenza, anche un’evidenza così eclatante. Figuriamoc­i se non rinneghiam­o noi stessi!

Siamo ai soliti vestiti dell’Imperatore. Se i sudditi dicono che il re non è nudo, non lo è, e non ha più importanza che lo sia.

Ma almeno lì c’era l’Imperatore, era una questione di potere, di favori. Forse anche di paura. Qui invece c’è solo il gruppo, l’ammasso i ndistingui­bile di persone come noi: è soltanto di loro che c’importa, oggi, è al loro parere e alla loro approvazio­ne che teniamo.

La verità oggettiva, e il pensiero indipenden­te, possono fare fagotto.

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