Ascoltando la voce delle pietre
«Parlo delle pietre che hanno sempre dormito fuori o di quelle che riposano nel loro giacimento e nella notte dei filoni. (...) Esistono fin dall’inizio del pianeta, e a volte provengono da un’altra stella. In questo caso recano su di sé la torsione dello spazio, come cicatrice della loro terribile caduta. Precedono l’uomo, e l’uomo, quando è arrivato, non le ha macchiate con l’impronta della sua arte o della sua industria. Gli unici utensili che hanno conosciuto sono quelli che sono serviti a rivelarle: il martello che le sfalda, per manifestarne la geometria latente, la mola che le leviga, per mostrarne la grana o risvegliarne i colori smorti. Sono rimaste quel che erano, a volte più fresche e leggibili, ma sempre nella loro verità: se stesse e null’altro». Nemmeno Roger Caillois, nelle sue sublimi pagine dedicate alle Pietre (cito dall’edizione Graphos) – tema e libro fondamentali, e libro come non se ne scrivono più... – ha “scovato” nelle pietre ciò che invece ci ha saputo trovare Pinuccio Sciola. Forse per caso (ma quando il caso non è una necessità di ordine superiore?), questo artista sardo (1942), nato in un paese di fango di un’isola pietrosa, è riuscito a dare voce –e a farla udire a tutti noi – alle inermi pietre. Lo scruto mentre accarezza le amate pietre con le sue mani possenti, nell’ateliergiardino dove profumano gli aranci a San Sperate. L’intensità della concentrazione nel suo viso, quando le tocca, la sacralità del gesto, sciamano della pietra: è, con tutta evidenza, in comunione con la forza dura delle sue immobili, commoventi, modelle. La bitorzoluta trachite, il severo basalto, il dolce ed equoreo calcare: millenni di silenzio in attesa che un uomo «nato dalla pietra» le rivelasse. Sciola è uno scultore che parla con l’essenza primordiale della materia e ora, con la precisione dei suoi tagli verticali (e talora orizzontali e trasversali), l’ha ricondotta a ritmi siderali. Fa effetto sentire questi suoni che arrivano, e sono, “dentro” le pietre: spiazzano e turbano, perché ci mettono in contatto con il buio dello spazio tra le galassie e con il tempo prima del tempo. Non si tratta di percuotere le pietre (semplice!), ma di farle gemere, di estrarne la voce solidificata e profonda, di farle vibrare, nella loro sorprendente elasticità. Oltre al martello e alla mola, Sciola ha usato anche la fiamma per riportare in luce il “sangue” e le lacrime della pietra, ferita dagli strumenti umani, ridandole, per poco, la memoria della lava da cui proviene. La fiamma alta è protagonista, con le sculture, nelle notti limpide nelle quali lo scultore accende un falò nel giardino: un concerto per fuoco e pietre, una danza di ombre, suoni, luci che sembra una funzione religiosa della quale Sciola, veneratore e figlio della pietra, è massimo sacerdote. E lo si vede bene anche nel bel documentario «Born of Stone», 15 intensi minuti di Emilio Bellu presentato in anteprima a Cagliari nei giorni scorsi e ora di prossima visione nei festival che lo vorranno invitare. Il film (trailer sul sito del regista www.emiliobellu.com) è accompagnato da una colonna sonora realizzata con i campionamenti dei suoni delle pietre sonore. Echi megalitici, sussurri indefiniti e ancestrali: e ora si può capire perché e cosa (ci) dicono. La civiltà umana, ricorda Caillois, si manifesta primariamente quando compie l’eccentrica impresa di sollevare una pietra, renderla ritta e protesa verso il cielo. Ecco: le pietre di Sciola cantano, con noi e per noi, un inno all’Universo che è nella loro memoria dalla notte dei tempi. Sono, finalmente, ciò che erano: se stesse e null’altro; sì, ma ora lo sono nella loro ulteriore, indifferibile, udibile, verità. Le pietre di Sciola cantano la nostra comune origine, la nostra parentela universale, il nostro posto nel cosmo.