Il Viminale: fondi alle periferie e imam moderati nelle carceri
pL’incubo di un attacco jihadista in Italia accelera i progetti di integrazione e di collaborazione con la comunità islamica. Non si mettono in piedi in un giorno e al ministero dell’Interno fino a non molto tempo fa languivano senza molti sostenitori. Adesso le spinte a riprenderli sono numerose: il rischio che sia troppo tardi è dietro l’angolo. Se il dipartimento di Ps, guidato da Alessandro Pansa, sollecita prefetti e questori a verificare ogni situazione di minaccia annidata nelle periferie e le marginalità sociali, da qualche giorno il ministro Angelino Alfano ha rimesso in moto anche una macchina destinata a un obiettivo preciso: prevenire, ridimensionare e ove possibile eliminare le forme di radicalizzazione islamica. Possibili, probabili e numerose. Statistiche vere non ce ne sono ma le potenzialità sono come minimo elevate.
Le direttrici dell’azione di governo, non solo del Viminale, sono due. «Un lavoro capillare nelle carceri; un intervento in tutte le situazioni di degrado e povertà», come spiega il viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico (Pd). Dall’esterno, può apparire un pannicello caldo. In realtà l’azione repressiva delle forze dell’ordine poco o nulla può contro la crescita di quelle che sono state chiamate le Molenbeek d’Europa, i quartieri in Belgio e anche in Francia inaccessibili ai tutori della legge dove è cresciuto negli anni l’odio islamico contro la cultura occidentale, terreno fertile per il reclutamento dell’Isis. Occorre scongiurare questi scenari e risolverli dove sono presenti anche solo in fase embrionale. Nessuno può giurare che in Italia non ci sia nulla del genere.
«Nelle carceri oggi abbiamo le maggiori evidenze dei rischi di radicalizzazione in Italia. Sono molte e diffuse. È lì, insieme al ministero di Grazia e Giustizia, che dobbiamo fare un lavoro più urgente e puntuale», dice senza giri di parole Bubbico. Gli esempi di reclutamento e di conquista alla jihad dietro le sbarre, del resto, ormai non si contano nelle inchieste giudiziarie; l’ultimo caso in un’indagine del Ros dei Carabineri resa nota due settimane fa dalla procura di Roma, guidata da Giuseppe Pignatone.
La scorsa settimana al Copasir il generale Arturo Esposito, direttore dell’Aisi (il servizio segreto interno), ha spiegato con dovizia di particolari le poten- zialità informative e i risultati finora ottenuti proprio nell’azione di ricognizione, ormai a largo raggio, degli agenti tra gli istituti penitenziari di tutt’Italia. L’attenzione, insomma, è più alta di quanto si immagini. Forse anche perché finora non è stata così capillare com’era necessario. Spiega Bubbico: «Ora si tratta di inviare negli istituti penitenziari soggetti esterni, in grado di professare l’Islam moderato e non violento. Devono essere, in sostanza, imam riconosciuti non solo dalle nostre autorità ma anche dalla comunità islamica in Italia con cui siamo in dialogo e confronto. È un’operazione che dovrà passare anche da un esame con l’organismo ufficiale di consultazione presso l’Interno». La realtà attuale è inquietante: i cosiddetti imam in carcere sono anch’essi soggetti reclusi. Il rischio che predichino un Islam violento è impossibile da escludere. Così nello scorso novembre il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), guidato da Santi Consolo, ha stipulato un protocollo d’intesa con l’Ucoii (Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia) proprio per «favorire l’accesso di mediatori culturali e di ministri di culto negli istituti penitenziari».
Al Viminale, con Beppe Pisanu e Giuliano Amato, era nata una Consulta per l’Islam italiana finita tra non poche polemiche su un binario morto. Alfano, dopo gli attacchi di Parigi di fine 2015, ha istituito e riunito il 24 febbraio scorso un “Tavolo permanente di consultazione” affidato al sottosegretario Domenico Manzione (Pd): già allora si ipotizzò un albo di imam e il varo di una campagna web contro il radicalismo religioso. Il ministro dell’Interno ha annunciato che presenterà il piano anti-radicalizzazione a Palazzo Chigi, dunque all’attenzione del presidente del Consiglio Matteo Renzi. In ballo c’è anche un « centro di ascolto » da istituire in ogni prefettura per aprire al dialogo con le comunità religiose locali in una forma coordinata e istituzionale. Ma l’impegno anti-radicalizzazione, sottolinea Bubbico, non è di ieri. «Il 29 luglio presso l’Istituto superiore di Polizia abbiamo svolto il vertice internazionale Countering violent extremism summit e, in partner con gli Stati Uniti, siamo stati capofila di un progetto che coinvolge 60 Paesi». La seconda sfida, la lotta contro la marginalità nelle periferie, «sta nella legge di stabilità che stanzia 500 milioni in proposito». Ma se i tempi sono brevi, è una scommessa a dir poco difficile.
IL VICEMINISTRO Bubbico: «Oggi negli istituti di pena abbiamo le maggiori evidenze di rischi di radicalizzazione. Lì serve un lavoro più urgente e puntuale»