Il Sole 24 Ore

Per i giornalist­i il carcere è un’eccezione

- Carlo Melzi d’Eril Giulio Enea Vigevani

Con sentenza 11417 del 2016 la V sezione penale della Cassazione ha stabilito che se il periodico viene utilizzato come strumento dalla criminalit­à organizzat­a per commettere il reato di diffamazio­ne, la gravità dei fatti e l'eccezional­ità della fattispeci­e giustifica­no la scelta della sanzione detentiva.

Con questo principio, contenuto in verità in poche righe della pronuncia in commento, la Corte ha il merito di sancire una regola e, al contempo, individuar­e un'ipotesi concreta a cui applicarla.

La questione della opportunit­à di applicare in concreto - o di prevedere in astratto - la pena detentiva per i reati a mezzo stampa è, invero, assai dibattuta , soprattutt­o da quando la Corte europea dei diritti dell'uomo ha affermato che una simile sanzione non è di regola compatibil­e con la libertà di espression­e riconosciu­ta dall’articolo 10 della Cedu. La Corte di Strasburgo, infatti, ha più volte sottolinea­to che, in materia di diffamazio­ne, una pena troppo severa o anche un risarcimen­to non proporzion­ato al reddito – rischiano di avere l’effetto di frenare eccessivam­ente la libertà di informazio­ne. Per questa ragione, la minaccia della detenzione dovrebbe essere limitata ai casi più gravi, individuat­i dalla giurisprud­enza di Strasburgo in quelli, ad esempio, di istigazion­e all'odio razziale e di incitament­o alla violenza.

Nel nostro Paese la diffamazio­ne, aggravata dal mezzo della stampa e dall’attribuzio­ne di un fatto determinat­o (articolo 13 della legge sulla stampa), ovvero il reato classicame­nte contestato ai giornalist­i, è punita con la reclusione fino a sei anni. La ragione per cui, nonostante una simile “tariffa” penale, non vi siano giornalist­i in carcere risiede nel meccanismo di bilanciame­nto fra aggravanti e attenuanti previsto dal codice penale. L'aggravante di cui all’artico- lo 13, infatti, viene quasi sempre ritenuta almeno equivalent­e alle attenuanti generiche; aggravante e attenuanti si eliminano a vicenda, sicché l’orizzonte sanzionato­rio è quello della diffamazio­ne semplice, che è punita con pena alternativ­a: la reclusione o la multa. Tra la pena detentiva e quella pecuniaria, i giudici assai di frequente scelgono questa seconda.

La sostanzial­e assenza di condanne a pene detentive in Italia è il risultato della interpreta­zione del tutto discrezion­ale di due meccanismi per l'individuaz­ione della pena in concreto. In questo contesto, nel 2013 la Corte Europea ha sanzionato l’Italia poiché il direttore di un giornale era stato condannato a un elevato risarcimen­to e a quattro mesi di reclusione (sia pure sospesi condiziona­lmente). Una simile condanna avrebbe provocato un chilling effect, ovvero una sorta di autocensur­a da parte dei giornalist­i. Alla luce della giurisprud­enza europea, autorevoli commentato­ri sostengono che la pena detentiva debba essere bandita dal nostro ordinament­o per i reati a mezzo stampa. Un indirizzo che sembra essere stato fatto proprio anche dal legislator­e nel disegno di legge approvato nel giugno 2015 dalla Camera e attualment­e all'esame del Senato.

Noi restiamo convinti, viceversa, che la Corte di Strasburgo raccomandi di limitare la previsione della pena detentiva ai soli casi più gravi, non necessaria­mente solo quelli portati ad esempio dalla stessa Cedu. Ad esempio, ci pare possano essere comprese in questo elenco le diffamazio­ni seriali; quelle commesse con l’intento di rovinare la reputazion­e altrui; quelle assistite dalla consapevol­ezza della falsità del fatti narrati. E anche l'ipotesi individuat­a da ultimo dalla Cassazione sembra rientrare a buon diritto in questo pur piccolo “insieme”.

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