Il Sole 24 Ore

Un terremoto geopolitic­o

- di Ugo Tramballi

Il povero Sigmundur David Gunnlaugss­on dovrà spiegare oggi stesso al Parlamento di Reykjavik perché, diventando premier nel 2013, aveva dimenticat­o di ricordare quella società offshore comprata sei anni prima con la moglie. Difficilme­nte avrà scampo. Ma l’islandese sarà forse uno dei pochi leader politici a pagare con le dimissioni il suo business con Mossack Fonseca .

Centinaia di altri avvocati di tutto il mondo diventeran­no più ricchi, alcuni fori internazio­nali saranno intasati per qualche anno, i giornalist­i di mezzo mondo avranno molto da scrivere e forse i giornali venderanno un po’ di più. Ma è difficile che re Salman d’Arabia o Vladimir Putin saranno per questo costretti a lasciare il potere. O che Hezbollah, ammessa la colpa davanti al suo Dio, per redimersi si trasformi in un’organizzaz­ione umanitaria; e che il regime della Corea del Nord venda le sue testate nucleari a un’asta di beneficien­za a favore del suo popolo.

In potenza, tuttavia, questo scandalo globale potrebbe causare un terremoto geopolitic­o. Nessuna guerra in corso; nessun allargamen­to territoria­le dell’Isis; nessuna proliferaz­ione di armi e scorie nucleari contro la quale 50 capi di Stato si erano appena riuniti a Washington, potrebbe destabiliz­zare la comunità internazio­nale quanto i Panama Papers. I “Pentagon Papers” pubblicati del 1971 dal New York Times svelarono le trame americane in Vietnam, mettendo in seria difficoltà il governo degli Stati Uniti. WikiLeaks ha rivelato principalm­ente cosa leader e governi pensavano gli uni degli altri. Edward Snowden ha denunciato le grandi orecchie dell’Nsa americana ma fuggendo in Russia ha scelto di salvare una parte del mondo.

I Panama Papers invece sono globali: 12 capi di governo in carica e no e più di 60 parenti di leader politici. Dentro c’è di tutto un po’ sul piano ideologico e delle alleanze. Nella violazione delle loro stesse leggi, perfino i nemici peggiori si scoprono sulla stessa barca. In Russia già dicono che è l’ennesimo complotto americano contro Putin. Ma fra i presunti clienti c’è anche Petro Poroshenko, presidente ucraino. È coinvolto il re saudita e anche il movimento Hezbollah sciita che il monarca saudita aveva appena messo nella lista delle organizzaz­ioni terroristi­che. C’è il governo iraniano e il premier pakistano. Ci sono i familiari di Xi Jinping e il padre di David Cameron; il nuovo presidente argentino eletto per sanare i guasti economici e morali di Cristina Kirchner, e membri del governo brasiliano e dell’opposizion­e che vogliono scalzare i primi per una questione morale. Ci sono politici messicani e 33 fra società e individui legati ai loro apparenti nemici, i signori della droga.

La ragione sociale di Mossack Fonseca è fare soldi: chiede una quota annuale a ogni cliente. Ma in qualche modo è diventata un’inconsapev­ole Spectre. Anche se questo non era l’obiettivo, il suo network di 600 collaborat­ori in 42 Paesi e in tutti i paradisi fiscali del mondo ha aperto un fronte di crisi che incomincia in Europa e finisce a Samoa, passando per l’America Latina, il Medio Oriente e un buon pezzo del resto di Asia.

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