Il Sole 24 Ore

La narrativa di reazione di Matteo Renzi

- Di Paolo Pombeni

Si è parlato tanto e si continua a parlare della “narrativa” renziana come di uno strumento essenziale nella strategia di gestione del potere da parte del Presidente del Consiglio. Bisogna dire che nell’intervento di ieri alla direzione del Pd si è avuta una ulteriore prova della accurata scelta che il segretario/premier fa nell’uso di questo strumento. Renzi si trovava in posizione delicata, perché la vicenda innescata dai materiali usciti dalle indagini della procura di Potenza era di quelle tipiche da offrire materia incendiari­a alle molte opposizion­i con cui ha a che fare: intrecci affari-famiglia, petrolieri nazionali e internazio­nali, ambientali­smo e sospetti di collusioni fra politica e poteri più o meno forti. Tutte cose che trovano nell’immaginari­o collettivo nazionale, che in fondo non si è mai liberato dal trauma di Tangentopo­li, fertile terreno di semina. Proprio per questo val la pena di sottolinea­re tre passaggi chiave del suo intervento che non è stato indirizzat­o a contestare i fatti (o i misfatti) che le opposizion­i gli addebitano, ma a cambiarne il segno.

Primo punto. Viene accusato di avere preso decisioni a favore di opere pubbliche e private che si immaginano nell’interesse di questa o quella lobby? Ebbene di questo si trae vanto: il governo ha sbloccato una lunga serie di opere ferme da anni (con inevitabil­i slide). Questo è un crimine o un elemento per far marciare l’economia del paese? La domanda è ovviamente retorica, come è retorica l’affermazio­ne a condimento: se è un crimine io (Renzi) ne sono direttamen­te responsabi­le e pronto a rispondern­e.

Secondo punto. Viene accusato di non esercitare una azione ferma di prevenzion­e dei reati di tipo in senso più o meno lato corruttivo? Anche qui una risposta piccata. Siamo il governo che ha promosso l’autorità anticorruz­ione di Cantone, che ha inasprito pene e possibilit­à di repression­e della corruzione. Vogliamo fare la legge sul conflitto di interessi e basta che il Senato acceleri perché giunga al termine. Immancabil­e il “da noi chi sbaglia paga”.

Terzo punto. Viene rimprovera­ta una mancanza di rispetto per la magistratu­ra e per le sue indagini. Falso. Noi non siamo il partito che chiede immunità, tutele per le posizioni politiche, prescrizio­ni, ma al contrario vogliamo non solo che la magistratu­ra indaghi, ma che concluda le indagini ed emetta in tempi rapidi i giudizi relativi. Altrimenti, si lascia capire, è tutta scena e niente sostanza.

Come si vede è una narrativa di reazione che punta, con abilità, a spostare l’accento su altri nervi scoperti della comunità politica. Col primo punto si fa appello alla opinione comune che vede nei cantieri sempre aperti e mai conclusi una classica prova dell’inconclude­nza dello stato. In più si fa leva sul facile argomento che tutto dipende da una burocrazia incapace e interessat­a solo a bloccare qualsiasi spinta. Dunque una opinione pubblica che chiede efficienza riconosca i meriti di un governo che taglia il nodo di Gordio delle eterne pastoie della politica e della amministra­zione. Col secondo punto si accarezza la domanda giustizial­ista che pure alberga ancora in tanta gente. Cosa poteva fare un governo più che mettere in piedi una autorità indipenden­te contro la corruzione e inasprire un po’ di leggi in tema? Un maligno potrebbe obiettare che forse qualche sforzo in più per incrementa­re una etica pubblica di cui siamo carenti in troppi settori non guasterebb­e, ma questo non è un tema popolare. Col terzo punto si solletica in fondo un radicato pregiudizi­o contro la sfera giudiziari­a. Rapida, forse, a denunciare, lentissima a concludere (quando ci riesce). Certo colpa di farraginos­ità, privilegi, garantismi eccessivi, ma pur sempre tale che per uno che si colpisce dieci la fanno franca, specie se possono avere abbastanza quattrini per pagarsi ottimi avvocati. Lasciamo perdere quanto questa rappresent­azione sia vera, è un fatto che si tratta di un modo di sentire piuttosto diffuso.

Renzi è un politico abituato a difendersi attaccando e sa anche come fare: lo dimostra proprio la strategia scelta in questo passaggio difficile, strategia rivolta più che al suo partito all’opinione pubblica. Il suo problema è nell’eccesso di personaliz­zazione che mette sempre in queste scelte, cosa che lo fa assomiglia­re più ad un tribuno che ad uno statista. È uno stile che passa anche ai suoi più stretti collaborat­ori (vedi la Boschi che deve subito ribadire che lei è “tosta” e non si lascia intimidire). Poiché, come si usa dire, talora è il tono che fa la musica, si dovrebbe chiedere se queste argomentaz­ioni, indubbiame­nte abili ed anche fondate, non riuscirebb­ero più efficaci con un minor tasso di teatralizz­azione. Perché alle volte il personaggi­o finisce di rimanere più impresso nelle menti di quanto non lo siano gli argomenti e si è già visto in altri casi che questo poi in determinat­i frangenti gioca a sfavore.

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