Come evitare una prossima recessione
L’«helicopter money» non servirebbe, meglio una mossa fiscale della Ue
Se non riuscite a capire quello che sta succedendo all’economia dell’eurozona, non siete gli unici. Un giorno ci dicono che la crescita è negativa, il giorno dopo che la ripresa è iniziata e il giorno dopo ancora che la Banca Centrale Europea sta pensando di mandare degli assegni a tutti i cittadini per incoraggiare la produzione e rivitalizzare l’inflazione. Raramente lo scenario economico è stato così confuso.
Iniziamo dalla crescita a medio termine. Sin dallo scoppio della crisi finanziaria nel 2008 la produttività è cresciuta a passo di lumaca. Stranamente, il magico potere di elaborazione degli smartphone non sembra aver compensato il rallentamento del miglioramento dell’efficienza dei servizi standard e manifatturieri. Per circa un decennio la crescita annuale della produttività nelle economie avanzate è stata infatti pari a circa l’1%, contro il precedente 2%.
Potrebbe trattarsi di un periodo di stallo temporaneo o di illusione statistica. Ma vista la mancanza di prove certe che indichino una fine di questo periodo, i policy maker hanno abbassato le previsioni. Dal 2010 l’Ufficio per i bilanci del Congresso degli Stati Uniti ha ridotto le sue prospettive di crescita della produttività dal 25 al 16% per il decennio fino al 2020. Lo stesso ha fatto l’Ufficio per la responsabilità di bilancio del Regno Unito riducendo le prospettive della crescita di pro- duttività dal 22 al 14%. Tutti stanno modifi- cando le previsioni in base a tempi di magra.
L’unico modo sicuro per invertire questa tendenza è investire nell’istruzione, promuovere l’innovazione e incoraggiare l’efficienza. Soprattutto in Europa un’ampia gamma di riforme potrebbe contribuire a co- prire il divario crescente con gli Stati Uniti nell’ambito dell’efficienza. La Bce può di certo esortare e incentivare, ma sono i go- verni a dover agire.
Osserviamo ora l’attuale trend di crescita. Nel 2015 la produzione dell’eurozona ha di poco superato i livelli del 2008 con una per- formance, quindi, sfavorevole per la quale non si può tuttavia incolpare la scarsa cresci- ta di produttività. Nonostante un periodo considerevole di ristagno economico, la cre- scita nel 2015 si è assestata intorno ad un delu- dente 1,5% e la Bce si aspetta per quest’anno una crescita pari solo all’1,4%. Sebbene si tratti di un contesto migliore rispetto alla contrazione che si è verificata tra il 2011 ed il 2013, ci si dovrebbe comunque aspettare un aumento della crescita in un’economia che trae beneficio da un tasso di cambio favore- vole, da tassi di interesse bassi a livello re- cord e dalla riduzione dei prezzi del petrolio.
L’austerità non è da colpevolizzare. Se da un lato un consolidamento prematuro dei budget pubblici è stata la causa princi- pale della doppia recessione di cinque anni fa, dall’altro la politica fiscale è stata am- piamente neutrale dal 2015.
Parte della spiegazione è nel rallentamen- to delle economie emergenti. Ma questi fat- tori esterni valgono anche per il Regno Unito e la Svezia che registrano tuttavia un tasso di crescita del 2-3%. La verità è che all’eurozona manca uno slancio interno. Nonostante la crescita del reddito, le famiglie sono riluttan- ti a consumare e a costruire, e nonostante la crescita dei profitti, le aziende non sono pro- pense a correre rischi e investire.
Uno dei motivi dietro a questa diffidenza è che il futuro appare tetro. Ecco perché le ri- forme che rafforzano l’economia nel medio termine possono essere d’aiuto anche nel breve termine. Un altro motivo è che il passa- to pesa forse troppo sul presente; dato che l’inflazione è così bassa, il debito accumulato non viene infatti smaltito e gli agenti sono obbligati a risparmiare per ripianarlo. Infine, la disoccupazione in alcune parti dell’euro- zona è ancora troppo alta per permettere alle famiglie di riacquistare fiducia, mentre la po- litica fiscale non è distribuita tra i paesi in modo tale da massimizzare le prospettive di crescita. Questo malessere duraturo sostie- ne un’inflazione al di sotto dei target che a sua volta mantiene i tassi di interesse reali trop- po alti. Con un’economia più fragile di come dovrebbe essere, la Bce ha attraversato il Ru- bicone diverse volte per incoraggiare l’infla- zione. Nonostante i rinnovati sforzi la batta- glia è tuttavia ancora indecisa.
Bisogna quindi porsi una terza questione: cosa potrebbe fare l’eurozona di fronte ad un grave peggioramento del contesto globale, ad esempio, un’impennata improvvisa del tasso d’interesse negli Stati Uniti o una re- cessione vera e propria in Cina?
In casi simili la domanda privata si con- trarrebbe e, con dei governi pesantemente indebitati propensi a non essere presi in con- tropiede da un aumento dell’avversione del rischio, la domanda pubblica non interver- rebbe per salvare la situazione. Il ricordo della crisi del debito sovrano del 2011 è infatti an- cora fresca e molti funzionari eviterebbero di utilizzare la politica fiscale per puntellare l’economia. Allo stesso tempo, la Bce rag- giungerebbe il limite del quantitative easing.
Ma lasciare che si verifichi una nuova re- cessione dopo una breve e debole ripresa verrebbe visto dai cittadini come un grande fallimento politico che indebolirebbe ancor di più il sostegno all’euro. Alla luce di questo contesto, la Bce sta riflettendo apertamente sulla risposta giusta. In un’intervista recente Peter Praet, capo economista della Bce, ha osservato che «tutte le banche centrali» possono stampare moneta e mandare assegni ad ogni cittadino: un’ultima ratio nota come «helicopter money». Dato che le famiglie spenderebbero parte di queste eventuali entrate impreviste, l’opzione dell’“helicopter money” incoraggerebbe sia la domanda interna che il livello dei prezzi.
Ma tale opzione comporta tuttavia delle difficoltà tecniche e legali. Nello specifico, gli economisti ortodossi sostengono che si tratterebbe di un’operazione quasi fiscale per cui la banca centrale non ha un mandato esplicito. I sostenitori di tale opzione rispondono invece che la Bce ha in realtà il mandato di mantenere l’inflazione intorno al 2% e che dovrebbe considerare tutte le opzioni (anche le più non convenzionali) per raggiungere il suo obiettivo.
È pur vero che la tecnica dell’“helicopter money” sarebbe pari ad un trasferimento diretto da parte del governo alle famiglie, finanziato dall’emissione permanente di moneta da parte delle banche centrali. Quindi, se da un lato l’opzione di una somma imprevista di denaro è coerente con il mandato della Bce rispetto al mantenimento della stabilità dei prezzi, dall’altro quest’operazione offuscherebbe la distinzione tra politiche fiscali e monetarie.
Si potrebbe invece optare per una mossa esplicitamente fiscale? Presupponendo che i governi non sarebbero propensi a spendere, l’eurozona potrebbe prendere in prestito, come entità, una somma per finanziare delle politiche a favore della crescita. L’ implementazione di una sorta di piano Juncker rafforzato (lo schema del presidente della Commissione europea mirato ad investire 315 miliardi di euro nel corso di tre anni), basato su progetti preselezionati da attivarsi nei tempi giusti, potrebbe di fatto creare una copertura importante contro il rischio di recessione. Questi progetti potrebbero consistere in investimenti che aiuterebbero a limitare il riscaldamento globale o investimenti che preparebbero la forza lavoro all’economia digitale. I prestiti verrebbero presi congiuntamente e dovrebbero essere sostenuti da una fonte dedicate, come un’imposta o un contributo definito sulla base del Pil, in modo da permettere all’eurozona di ripagare il suo debito.
Le difficoltà politiche inerenti a questo schema creerebbero senza dubbio delle difficoltà sull’accordo. Non è chiaro se sarebbe più facile optare per un’operazione di prestito da parte dell’eurozona rispetto ad un trasferimento quasi fiscale da parte della Bce. Ciò che è chiaro comunque è che l’eurozona dovrebbe valutare queste opzioni perché una delle due potrebbe rivelarsi prima o poi necessaria.
IL RUOLO DELLA BCE Francoforte sta agendo da tempo e si interroga costantemente su quali siano le prossime decisioni da adottare in un contesto che stenta a far vedere forti segnali di ripresa