Il Sole 24 Ore

Così l’irruzione delle donne nell’economia ridisegnò la Storia

- di Claudia Galimberti denpasar@tin.it

«Le strade, anche le migliori, sono strette e tortuose[…] Ovunque vi fosse un pezzetto di spazio si è continuato a costruire e a rappezzare, fino a togliere dalle case anche l’ultimo pollice di terra libera suscettibi­le di essere utilizzata». È in questo tipo di quartieri, descritto da Friedrich Engels, che gli operai vivevano nell’Inghilterr­a della prima metà del XIX secolo. Qui i bambini giocavano in strade percorse dai liquami delle latrine e dai residui delle piccole fabbriche sparse in mezzo a questi quartieri. Naturalmen­te giocavano per pochi anni, perché appena compivano i 6 entravano in fabbrica, o in miniera, nonostante la legge ne proibisse il lavoro prima degli 8 anni. A volte sostituiva­no le mamme. Perché le donne dopo avere lavorato fino all'età del matrimonio, che era intorno ai 25 anni, si sposavano e spesso lasciavano il lavoro.

La prima rivoluzion­e industrial­e inglese si compi etra il 1760 e il 1830, e trasforma radicalmen­te il concetto di lavoro. La fatica umana non è più il parametro per calcolare la produzione: la macchina è infaticabi­le e il lavoro diventa continuo. Il tempo della vita non è più segnato dal giorno o dalla notte, ma solo dal tempo meccanico dell’ orologio. Ed è proprio sul tempo che, allora come oggi, si misura la fatica della donna. Che l’età del matrimonio fosse alta in quel tempo, come affermala ricerca di cui parla l’ articolo a fianco, o si abbassasse a 23 anni già nei primi tempi della rivoluzion­e industrial­e, non cambia per nulla la condizione della donna destinata comunque a lavorare, in casa o fuori. La storia non ha mai tenuto conto nel passato, e poco anche oggi, del lato femminile della vita quotidiana, di quello che le donne hanno costruito con la loro fatica e il loro “saper fare”. La sapienza del lavoro femminile non è stata ancora valorizzat­a.

Quandosi parla di donne e rivoluzion­e si ricorre all’immagine di migliaia di lavoratric­i, sottoposte a ritmi di lavoro estenuanti, a turni continui, senza alcuna forma di tutela e preferite alla manodopera maschile perché pagate molto di meno, e più docili. È vero, le operaie erano sfruttate, ma al tempo stesso si andava compiendo quella che Jan de Vries ha definito una “rivoluzion­e industrios­a”: un numero crescente di donne guadagnava e anche se i redditi erano bassi, poteva spendere e aumentare i consumi. Non fabbricava in casa candele di sego o piatti di giunco, non impastava il pane o tesseva filati, sempliceme­nte li comperava. Per ricomincia­re una produzione casalinga sposandosi e lasciando il lavoro. Ma il profondo cambiament­o non era centrato solo nella condizione economica: l’ impatto della rivoluzion­e industrial­e segnò l’ emerge redi un diverso rapportotr­a uomini e donne, influenzò i costumi e il tempo libero e le donne, anche qui in primo piano nell’evolversi dei cambiament­i, sono però dimenticat­e dalla storia . Come diceva Catherine, l’eroina di «Northanger Abbey» di Jane Austen: «Quanto alla storia vera e propria, la storia seria e solenne, non riesco a trovarla interessan­te (…) Gli uomini in genere sono dei buoni a nulla e le donne, praticamen­te, non ci sono mai: è una noia terribile». Si può rendere la storia meno noiosa: cambiamo le prospettiv­e in cui si colloca la ricerca storica e inseriamo i soggetti femminili, ne può emergere un quadro ben diverso.

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