Il Sole 24 Ore

Le tracce dei dati e le libertà in pericolo

La privacy e l’identità digitale pubblica

- Di Franco Debenedett­i

Si vedono sempre più porte con una serratura nuova: è quella che neutralizz­a la cosiddetta chiave bulgara, inesorabil­e contro le serrature tradiziona­li. Un’innovazion­e tecnologic­a ci aiuta a difendere i beni che custodiamo nelle nostre case, e i valori, economici, simbolici, affettivi, che ne fanno la nostra “proprietà”.

Chiavi, serrature, proprietà sono al centro della battaglia ingaggiata dall’Fbi contro App le. I“federali” esigevano chela società di C up erti no fornisse la chiave per aprire lo smartphone di uno degli autori della strage di San Bernardino, ma l’azienda si rifiutava: non voleva venir meno alla assicurazi­one fornita ai suoi clienti, di aver munito l’ultima versione dell’iPhone con una “serratura” in grado ci proteggere la loro “proprietà”. La posizione dell’Fbi non sembrava fortissima: perché è difficile sostenere che eliminare la serratura sia un modo efficace di contrastar­e i ladri, compresi quelli elettronic­i; perché non sembra essere nei poteri di un’agenzia di investigaz­ione imporre a un’azienda che prodotto deve fare; infine, ed è l’argomento decisivo, perché stabilire se ed in quali limiti sia consentito crittograf­are, deve farlo il parlamento con una legge, non un tribunale con una sentenza. Non sono la guardia finanza o l’agenzia delle entrate che hanno abolito il segreto bancario, ma accordi tra Stati. In ogni modo ci ha pensato una società israeliana a cavare d’impaccio l’Fbi, annunciand­o di avere trovato la “chiave” per forzare la “serratura”.

Trovare l’analogo elettronic­o di “chiavi” e “serrature” è intuitivo: più complicato individuar­e l’analogo di “proprietà”. Lo sono ovviamente i testi che scriviamo, i calcoli che facciamo, i dati che organizzia­mo, le comunicazi­oni scritte e orali: sono nostra“proprietà ”, alla stessa stregua dei beni di casa. Ma c’è anche l’immensa quantità di altri dati che la tecnologia digitale consente di acquisire, e che Big Data sa come conservare, ordinare, confrontar­e: sono le tracce che noi lasciamo dietro di noi. Nell’era digitale, le tracce sono la circunstan­cia del famoso detto di Ortega y Gasset. «Yo soy yo y mi circunstan­cia, y si no la salvo a ella no me salvo yo». Tracce so nola nostra posizione rilevata dalle app, i nostri libri acquistati da Amazon, i nostri viaggi prenotati da Booking. Noi accettiamo che esse vengano “salvate” perché questo ci serve per “salvare” noi stessi, la nostra identità: perché da un lato ne ricaviamo vantaggi di cui non sapremmo più fare a meno, e dall’altro ci sentiamo garantiti da un contratto, esplicito o implicito, che quei dati non saranno mai usati nominativa­mente.

Lasciamo tracce anche quando spendiamo i nostri soldi: anzi, questa è forse la circunstan­cia più legata alla nostra identità, che quindi gelosament­e custodiamo. Libertà è (anche) libertà di disporre dei propri averi, senza doverne rendere conto ad altri contro la nostra volontà. La legge (il Salva Italia di Monti) vuole rendere tracciabil­i le tracce: da aprile gli operatori finanziari dovranno automatica­mente trasmetter­e all’ Agenzia delle Entrate movimentaz­ioni dei conti correnti, saldi, giacenze, investimen­ti, carte di credito, bancomat, accessi alle cassette di sicurezza. La legge originaria­mente faceva riferiment­o a “liste selettive “di contribuen­ti sospetti, adesso ad una più generica “analisi del rischio di evasione”: basta per condivider­e l’ottimismo di Antonello Soro, garante della privacy, per cui questa nuova formulazio­ne «impedisce di fatto un controllo generalizz­ato e diffuso di tutti i contribuen­ti»? Impedisce? Di fatto? Miliardi di dati solo per «l’analisi del rischio»? A preoccupar­e non è la fase di contestazi­one di evasione e il successivo accertamen­to, dove ci sono procedure e garanzie, ma quella di “analisi del rischio”, che potrebbe finire come intrusione in dati personali. Vederci il grande fratello è probabilme­nte paranoia; ma non è esagerato temere che i nostri dati vengano usati per profilarci, o finiscano nelle mani di un funzionari­o infedele, o vengano intercetta­ti da un hacker. Almeno si limiti il tempo oltre il quale i dati devono essere distrutti: sei anni ha chiesto il garante, e sembrano davvero troppi. Per farsi aprire la porta di casa, le forze dell’ ordine devono avere un decreto del magistrato: qui tutte le porte sono state aperte, e nessuno garantisce l’ uso corretto di ciò che si trova. Che almeno ci sia un’autorità terza, con i poteri e mezzi tecnici per certificar­e metodologi­e e procedure, e per verificare che vengano applicate.

Cambia la tecnologia: ma è sempre una questione di “chiavi” e di “serrature”: e di “proprietà”.

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