Teatri pubblici, l’esempio di Lione
Serge Dorny, classe 1962, è directeur général dell’Opera nazionale di Lione. Ricopre altri incarichi che gli vengono dallo Stato francese e da università svizzere, può vantare onorificenze belghe e canadesi, ma non abbiamo chiesto di incontrarlo per questi motivi.
Eravamo interessati a capire con lui quali siano ragioni e tendenze che stanno cambiando la vita dei teatri, le nuove prospettive in un mondo artistico che sta radicalmente trasformandosi. L’Opera di Lione è diventata in questi ultimi anni un gioiello che vale e si fa notare; ha coinvolto, con la recente nomina, una delle promesse della direzione d’orchestra, l’italiano Daniele Rustioni. Poco più che trentenne.
Dorny non è un manager che si esprime con il solito rosario di anglismi per poi ripetere le consuete filastrocche sui conti, perché è immediato. Ci ricorda che la crisi in corso non è soltanto economica, ma ha una forte componente morale e, per quel che riguarda la vita dei teatri, istituzionale. Quest’ultima battuta è dedicata a coloro che lavorano copiando e incollando i cartelloni passati e che amano mettersi su una scranna, convinti che il pubblico debba andare verso di loro come i bambini facevano con Gesù. Quell’epoca, presente nei rimpianti e nelle illusioni, forse non c’è mai stata e taluni fenomeni, confusi con la realtà, erano soltanto degli incidenti momentanei. Dorny è convinto di questo: «Il mondo non è mai definitivo». Ci verrebbe da aggiungere, se non fossimo in Francia, “nonostante Napoleone” (il nostro interlocutore, comunque, è nato in Belgio).
Di più: Dorny è convinto che la musica, come tutte le altre arti, deve essere programmata e organizzata «anticipando le domande del pubblico». E proprio il pubblico è al centro delle sue attenzioni. Inutile dire e ripetere che il gusto è calato e la competenza anch’essa, perché questo genere di lamentele si è sempre sentito da che mondo è mondo; quel che conta oggi è stabilire un rapporto corretto tra il cittadino che paga le tasse e l’utilizzo che le istituzioni fanno del denaro dei contribuenti. I principi mecenati sono svaniti e i cardinali, che a volte svolgevano la medesima funzione, hanno altri problemi. Ormai gli Stati (Italia docet) sono talmente presi dai discorsi sui debiti e sulle manovre di bilancio che dimenticano i diritti di chi versa buona parte di quel che guadagna all’erario pubblico. Per questo Dorny sottolinea: «Aprirsi significa raggiungere un numero sempre più grande di contribuenti e soprattutto vuol dire rendere ragione del denaro che ci viene dato dai cittadini attraverso la fiscalità. Le nostre istituzioni non possono ripiegarsi su se stesse, diventare dei club esclusivi o quasi; esse hanno il dovere di rivolgere a più pubblici e non a uno solo. Tutti devono vedere la presenza dell’opera in una città. Anzi, l’opera diventi una piazza, un luogo d’incontro. La gente dovrebbe entrare, uscire, assistere poco o tanto, vivere le proprie emozioni, discutere, ritornare se lo desidera».
Gli chiediamo se questa sua visione delle cose sia legata a qualche particolare strategia. Pur insegnando a Zurigo “Executive Master in Arts Administration”, Dorny ribadisce: «Non è questione di marketing. È più facile chiedere soldi che coinvolgere. Ognuno, alla fine, ha il pubblico che si merita». Cercando, per usare una metafora calcistica, di “marcarlo stretto”, gli ricordiamo che lui a Lione ha rivoluzionato i prezzi dei biglietti. «Anche – aggiunge – ma non soltanto. Quando arrivai i costi oscillavano tra 30 e 60 euro, oggi tra 5 e 100. Ho però parlato con gli studenti dei licei, ho chiesto alla Regione e poi alla città di investire su se stesse e decine di migliaia di giovani sono passati nel teatro e molti torneranno».
In verità Dorny ha contattato anche con i coetanei che si possono incontrare più facilmente fuori dalle scuole e ha trovato un accordo persino con quelli che giocano e si riuniscono dinanzi al teatro, magari sfreccianti su tavolette e pattini, e all’ora d’inizio lasciano lo spazio agli spettatori; può capitare che, a volte, siano parte di loro. Un dato è significativo: il pubblico dell’Opera di Lione con meno di 25 anni ha raggiunto il 25 per cento.
Il futuro? Dorny ricorda che anche in Francia si prevedono riduzioni delle sovvenzioni pubbliche, così come accade in gran parte dell’Occidente. Per affrontare il gelo crescente dei contributi pubblici la politica di coinvolgimento ci sembra la soluzione migliore. Anche perché – è una sua battuta mentre ci accompagna all’uscita – «i sogni bisogna toccarli».