Trieste è italiana
«Carissimo signor Samaja, questa mane ebbi la bella sorpresa della Sua monografia tanto importante perché fa riviverei giorni più importanti della vita di ognuno di noi…». Così inizia una breve lettera di Italo Svevo, il grande scrittore triestino, indirizzata a Marco Samaja (intellettuale, irredentista, consigliere comunale di Trieste finito ben presto sotto la lente della polizia asburgica e deportato sino alla disfatta imperiale), amico e compagno di esperienze legate alla difficile e pericolosa fase di transizione della città adriatica nei mesi successivi alla disfatta austriaca alla fine della Prima guerra mondiale. Più oltre, l’ auto redi La Coscienza di Zeno ribadisce che« nessuno può cancellare la storia». Questa lettera è del 2 dicembre 1926 e segue di poche settimane una altrettanto breve nota, sempre indirizzata al signor Samaja, in cui Svevo dichiara di aver ricevuto una copia autografa della monografia in questione (intitolata Fusione di Trieste con la madre patria: 20 ottobre-3 novembre 1918) e di aver passato nella sua lettura «un’ora deliziosa», rivivendo «fatti di cui fummo parte e di cui immediatamente sapevamo».
A cosa allude Svevo in questi due casi? Le lettere, manoscritte, di cui non si sapeva nulla, sono state recuperate presso la Biblioteca Cantonale di Lugano (Archivio Prezzolini, Fondo Guido Almansi) da Riccardo Cepach, responsabile del Museo Svevo e del Museo Joyce di Trieste. Questa “scoperta” ben si inserisce nell’ambito della Mostra Era scoppiata la pace: Italo Svevo, la guerra e il pacifismo, curata da Silvia Buttò e Riccardo Cepach, che nei locali dei due Musei espone una vasta messe di documenti e di chicche bibliografiche: il tutto volto a illustrare la posizione dello scrittore nei riguardi della storia a lui contemporanea.
Nelle due lettere a Samaja si accenna ai «giorni più importanti della vita di tutti noi», in un afflato sincero di condivisione. “Quei” giorni si riferiscono ai drammatici avvenimenti di una città in cui, liberati i soldati austriaci dal vincolo del giuramento all’Imperatore, non esiste più alcuna autorità civile che possa garantire l’ordine pubblico. Trieste è stremata, la carestia si assomma agli infausti effetti dell’epidemia spagnola, che sta decimando i reduci dai fronti (l’indice locale di mortalità è di 1400 decessi giornalieri). Samaja si trova al centro di queste sofferenze, investito dalla necessità di far fronte alle emergenze primarie (sfamare la popolazione, pagare gli stipendi pubblici con le casse comunali vuote), e aderisce, insieme ad altri intellettuali, all’idea di fondare un nuovo organo di stampa “italiano” («La Nazione») e di creare un Comitato ristretto che favorisca la nascita di un più vasto Comitato di salute pubblica (contenente anche una riottosa componente slava) in grado di contattare le autorità italiane e preparare l’arrivo della Regia Marina a Trieste.
In quel primo Comitato, insieme con il conte Francesco Sordina (che fu allievo di Joyce), a Oscar Ravasini e al deputato della Dieta provinciale istriana Ludovico Rizzi, era presente anche Italo Svevo, che così condivise le angosce di quei difficili momenti. Poi conclusasi, dopo un crescendo di incertezze, soltanto tra il 30 ottobre, quando su una torpediniera austriaca i rappresentanti della componente italiana e slava raggiunsero, zigzagando fra le mine, il Comando della Marina Italiana a Venezia, e il 3 novembre, quando finalmente il cacciatorpediniere Audace attraccò e poté “redimere” Trieste. Svevo dunque era tra coloro che “trepidavano” per l’italianità di Trieste, e che otto anni dopo, nel 1926, pagava un tributo a Samaja e al suo opuscolo fresco di stampa in cui tutte le fasi dell’Italianità guadagnata erano raccontate in presa diretta.
Ma Svevo che idea aveva della guerra e della pace? La guerra non compare che trasversalmente nei suoi scritti (un’eco di quei cannoni che si sentivano a Trieste nelle notti provenienti dall’Hermada poco distante); della pace abbiamo una visione “apocalittica” nel finale della Coscienza. Certo che lui, la guerra (esonerato dalla “riserva” forse perché gestore d’una fabbrica strategica), l’aveva vissuta da imprenditore (macchinari sequestrati, ispezioni), e in ogni caso ci aveva fatto tutti suoi affari vendendo vernice “bellica” all’odiata Austria. La pace, che tentò di definire in un suo pamphlet (conosciuto come Sulla teoria della pace ma ora identificato dal team Buttò-Cepach, grazie a una rivisitata impaginazione, come La Lega delle Nazioni) era per lui pur sempre un’utopia. In questo testo teorico, che ci è rimasto frammentato, infatti, Svevo mostra il suo scetticismo su una «Lega internazionale dei vittoriosi» a cui non venga data una reale possibilità di agire. E qui, certo, sta guardando fino a noi.
il 17 aprile «cuore di cane» di bulgakov