Trevor o l’arte della visione rapida
Lo scrittore irlandese è maestro nel suscitare con i suoi racconti «esplosioni di verità» descrivendo le vite di quieti antieroi
Meno conosciuto in Italia di Alice Munro o dell’assai diverso Raymond Carver, William Trevor è uno dei massimi scrittori contemporanei di racconti. Dagli anni Sessanta del secolo scorso a oggi, questo irlandese nato nel 1928, tradotto in molte lingue e spesso nominato tra i papabili del Nobel, ha alternato pochi romanzi a una lunga sequenza di racconti, autonomi eppure legati tra di loro, che sono una sorta di commedia umana molto differente da quella inventata e così definita da Balzac nell’Ottocento. Su ciò che per lui è e deve essere una short story Trevor ha le idee chiare: l’ha definita «l’arte della visione rapida», ma anche «un’esplosione di verità». Se il romanzo deve confrontarsi con la misteriosa, buffa o tragica, insensatezza della vita, nel racconto, dice, questo non è possibile – nei suoi racconti almeno: ciò che vi appare è sempre un significato che spesso coincide con il senso nascosto e profondo di quanto agli altri appare irrilevante e casuale. Così è anche in questa nuova raccolta Peccati di famiglia, dove i peccati non costituiscono il fulcro della storia o un suo tragico vertice, ma sono piuttosto il retroterra segreto, il fondamento di ciò che viene narrato.
L’autore irlandese (ma esule, come si definisce, da molti decenni nel Devon) sa che per convocare il lettore nell’intimità di uno sconosciuto - di uno dei suoi personaggi, cioè - ci vuole calma e discrezione. Ciò che noi scopriamo del giovane Hubert, di Barney, di Ariadne e di tutti gli altri lo veniamo a conoscere a poco a poco, con piccole informazioni che si fondono con lo scenario della storia, la provincia irlandese ma anche i dintorni di Perugia o una pensioncina svizzera. Nessuno di loro è un personaggio memorabile, Trevor ha specificato in varie occasioni che considera il lato antieroico delle persone molto più interessante e ricco del protagonismo appariscente. Ma la vita dei suoi quieti antieroi è segnata da una silenziosa eppure violenta tempesta passionale interiore. Come accade a Maura Brigit in uno dei racconti più incisivi della raccolta, Il ritorno di un marito: dopo sei mesi di matrimonio la ragazza ha perso lo sposo, fuggito con una sua sfacciata sorella; ora che la sorella è morta il marito vorrebbe ritornare e lei stessa desidera con ardore questo ritorno, ma non può dirlo, il mondo che la circonda non lo consente e soprattutto non lo capirebbe. Ogni racconto più che a un fatto è affidato a un misfatto lontano o nascosto o dimenticato, e a una breve ma decisiva catena di omissioni. I peccati di cui scrive l’autore irlandese sono piuttosto atti mancati, incontri interrotti, desideri vissuti a metà, e i suoi introversi personaggi non inseguono un sogno, ma la traccia di qualcosa che si è perso eppure continua a essere presente e vitale. Così è la figura del destino, così è la fisionomia dell’amore: «un mistero apparso dal nulla senza logica e senza ragione» pensa Charlotte, protagonista di Stampe, che non può dimenticare, ormai solitaria adulta, un uomo incontrato a diciassette anni in un paese straniero, che durante un pomeriggio d’estate l’ha abbracciata in un istante di passione.
Ma Trevor è tutt’altro che uno scrittore sentimentale. I suoi racconti, realistici e coinvolgenti e carichi di atmosfera e suggestioni, sono anche una meditazione sul tempo o piuttosto sulla sua inaffidabilità: il tempo che sembra passato non smette di tornare, il futuro che deve arrivare può arenarsi capricciosamente, i tempi verbali si scontrano piuttosto che incontrarsi. Lavora sui ricordi, e i suoi personaggi ricordano così tanto che sembrano nascere dalla propria memoria. Ma il ricordo non è una allegra o triste evocazione di qualcosa di perduto, è la materia stessa dell’identità più vera perché più segreta.