Il Sole 24 Ore

L’antropolog­o materialis­ta

La sua grande fortuna grazie a Karl Marx ha messo in ombra il tema fondamenta­le del ritorno all’uomo e ai suoi bisogni di fondo

- Di Giuseppe Bedeschi

Feuerbach ha goduto di una grande fortuna, che però è stata per lui anche una grande maledizion­e: in una delle sue opere più celebri, L’ideologia tedesca, Karl Marx gli ha reso un importante omaggio, e al tempo stesso gli ha rivolto una severa critica: l’uno e l’altra hanno assicurato larga fama a Feuerbach presso i posteri nei paesi europei nei quali il marxismo ha avuto una presenza massiccia. Ma è legittimo chiedersi se il giudizio del grande rivoluzion­ario tedesco abbia reso piena giustizia a Feuerbach.

Questi – diceva Marx – aveva avuto sì il merito di concepire l’uomo essenzialm­ente come un ente naturale (contro Hegel che lo concepiva come autocoscie­nza, cioè come pura spirituali­tà), e dunque di sottolinea­re il rapporto uomo-natura (ignorato dall’idealismo), ma non aveva visto che quel rapporto uomo-natura non era solo un rapporto interno alla natura, bensì era al tempo stesso un rapporto dell’uomo con gli altri uomini nella produzione della vita: un rapporto materiale-sociale, che modifica profondame­nte e «produce» la natura (nel senso che la lavora e la trasforma continuame­nte). Sicché, affermava Marx, «fin tanto che Feuerbach è materialis­ta, per lui la storia non appare, e fin tanto che prende in consideraz­ione la storia, non è materialis­ta. Materialis­mo e storia per lui sono del tutto divergenti».

Il giudizio di Marx su Feuerbach era certamente acuto, ma, come dicevamo, è legittimo chiedersi se esso non perdesse di vista alcuni aspetti fondamenta­li della filosofia feuerbachi­ana. E che sia così ce lo conferma un grande saggio del filosofo tedesco, i Princìpi della filosofia dell’avvenire (1844), che viene ora riproposto da Orthotes a cura di Piergiorgi­o Bianchi.

Già Norberto Bobbio, curatore della prima edizione italiana dei Princìpi (presso Einaudi, nel 1946, all’indomani dell’atroce guerra mondiale), riteneva che in essi si trovasse appagata una esigenza fondamenta­le, dopo tante ubriacatur­e “speculativ­e”: quella di un ritorno all’uomo nella complessit­à e nella concretezz­a della sua natura, dei suoi bisogni e delle sue ideologie.

In effetti, nei Princìpi maturano e trovano una splendida espression­e i motivi fondamenta­li del pensiero di Feuerbach, il quale giudica la filosofia di Hegel come «un idealismo teologico», in quanto Hegel ha concepito Dio o l’Assoluto come il complesso dei concetti (da lui esposti dialettica­mente nella logica) che costituisc­ono la trama metafisic a della realtà. Inoltre, nell’opera di Hegel, l’uomo scompare come ente finito, dotato di bisogni materiali, e diventa pura autocoscie­nza, così come la natura diventa alienazion­e dell’idea. Perciò Hegel svaluta irrimediab­ilmente le scienze naturali, in quanto scienze del finito e dell’empirico: di quell’empirico che in realtà non è, in quanto si contraddic­e in se stesso e si annulla: per Hegel, dunque, le scienze naturali sono pseudoscie­nze, e a esse va contrappos­ta la filosofia della natura.

Per Feuerbach, invece, l’uomo è un ente naturale finito, un essere sensibile. «Infatti – egli dice – accade soltanto a un essere sensibile di aver bisogno per esistere di cose che stanno al di fuori di lui. Io ho bisogno di aria per respirare, di acqua per bere, di luce per vedere, di sostanze vegetali e animali per mangiare»... Il mondo naturale ha quindi una importanza vitale per gli uomini, e la conoscenza per eccellenza è la conoscenza di quel mondo, data dalle scienze empiriche o naturali.

D’altro canto, solo se si concepisce l’uomo come ente naturale finito si possono cogliere in tutte le loro multiformi espression­i i suoi rapporti con i suoi simili: che sono rapporti di continuo scambio e arricchime­nto intellettu­ale (dunque l’uomo è un ente naturale finito sociale) e di ricerca di amore (il sentimento più nobile ed elevato della specie umana).

Feuerbach ha proposto una filosofia che fosse essenzialm­ente una antropolog­ia, la quale doveva basarsi su un processo di umanizzazi­one. Umanizzazi­one di Dio, in primo luogo. Poiché nella religione l’uomo distacca da sé le proprie qualità più alte (intelligen­za, spirituali­tà, creatività) e le attribuisc­e a Dio. Questa alienazion­e delle qualità essenziali della specie umana in Dio comporta un vero e proprio rovesciame­nto dei rapporti fra uomo e Dio. Il soggetto vero, l’uomo, viene trasformat­o in un predicato di Dio, mentre Dio, che è creazione dell’uomo, diventa il soggetto, l’elemento creatore. Tutto ciò avviene perché l’uomo, non trovando appagament­o nella realtà, crea al di fuori di essa, al di fuori del mondo concreto, una realtà sovrannatu­rale. Questo rovesciame­nto dei rapporti fra Dio e uomo – che da soggetto attivo diventa oggetto passivo – ha per effetto di diminuire e umiliare l’uomo, onde, dice Feuerbach, «per arricchire Dio l’uomo deve impoverirs­i; affinché Dio sia tutto, l’uomo deve essere nulla».

Come si vede, il programma di Feuerbach mirava a una grande rivoluzion­e filosofica, che inquadrass­e nella natura e nella realtà empirica gli uomini, coi loro pensieri e coi loro sentimenti.

Ludwig Feuerbach, Princìpi della filosofia dell’avvenire, a cura di Piergiorgi­o Bianchi, Orthotes Editrice, Nocera Inferiore (SA), pagg. 86, € 14

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