Modelli che spiegano troppo
Il 2008 ci ha insegnato che le teorie economiche possono fallire per eccesso di fiducia in se stesse. Avranno imparato la lezione?
Quasi mezzo secolo fa Albert Hirschman, una delle menti più creative della professione economica, lamentava la «coazione a teorizzare» degli scienziati sociali e spiegava come la ricerca dei grandi paradigmi potesse essere un «ostacolo alla conoscenza». L’impulso a formulare teorie universali, temeva Hirschman, acceca gli studiosi davanti al ruolo dellacontingenzaeallavarietàdipossibilitàcheil mondo reale pone di fronte a loro.
I modelli «costruiti astratti, solitamente matematici, che gli economisti usano per dare senso al mondo» costituiscono il fulcro del libro di Rodrik che è insieme una celebrazione e una critica dell’economia. Essi sono sia il punto di forza sia il tallone di Achille dell’economia, ma –asserisce l’autoresono anche ciò che fa della disciplina economicaunascienza.Quandoimodellivengonoscelti appropriatamente,sonounafontediilluminazione; quando «sono usati dogmaticamente, portano all’hybris e all’errore nell’azione politica».
Il punto è che esiste una sempre maggiore diversità di modelli esplicativi. Gli economisti si sono spostati dai modelli concorrenziali alla concorrenza imperfetta, dall’asimmetria informativa all’economia comportamentale. I mercati idealizzati e senza imperfezioni hanno cedutoilpassoamercatichepossonofallireinogni genere di modi. Il comportamento razionale è stato eclissato dalle scoperte della psicologia. Eppure l’attaccamento degli economisti a particolari convenzioni nella costruzione di modelli spesso li induce a sottovalutare ovvi conflitti con il mondo intorno a loro.
Così, l’irrompere della crisi nel 2008 ha mostratocheleteorieeconomichedominanti,matematicamente corrette e basate su «ipotesi realistiche», non corrispondevano a quanto di fatto stavapreparandosinelcapitalismoglobale.Oggi, come ha osservato Anatole Kaletsky, dobbiamo attenderciunnuovospostamentonelconfinefra politica ed economia e ciò comporterà gettar via l’ortodossia delle teorie mainstream.
Quando gli economisti confondono un modello con “il modello”, possono commettere errori di omissione ed errori di commissione. In quest’ultimocaso,lafissazionesuunaparticolare idea del mondo rende gli economisti conniventi con politiche il cui fallimento avrebbe potutoesserepredettointempo.SecondoRodrik,il sostegno da parte degli economisti al cosiddetto Consenso di Washington e alla globalizzazione finanziaria fa parte di questa categoria: la mancata previsione della crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ha prodotto la peggiore recessione dal tempo della Grande Depressione.
Certamente non mancavano modelli per capire ciò che stava accadendo. Un elemento cruciale nella preparazione della crisi è stata l’eccessiva assunzione di rischio da parte dei manager delle istituzioni finanziarie. I loro compensi erano collegati a questa assunzione di rischio, ma il lorocomportamentononeraallineatocongliinteressi degli azionisti delle banche. Anche se la veridicità di questa affermazione dell’autore è in molti casi da dimostrare, è pur vero che la divergenzadiinteressitramanagereazionistièalcentro dei modelli cosiddetti principal-agent (un regolatore che cerca di controllare il comportamento di un agent, come un CEO).
Il punto è che il mainstream, consolidatosi negli ultimi decenni, presupponeva un’eccessiva fiducia nell’efficienza dei mercati finanziari a scapito di modelli che ne prevedevano le patologie(comelebolle).Imercatieranoritenuti,difatto, il motore del progresso sociale.
Anche il cosiddetto Washington Consensus, l’agenda che, alla fine degli anni Ottanta, mirava a trasformare i Paesi in via di sviluppo in casi da manuale dell’economia di libero mercato, dimostracheunascarsaconsiderazioneperilcontesto locale e per la fattibilità delle riforme può produrre più danni che benefici.
Infatti, molti dei mercati interessati non funzionavano come ci si era aspettato e, invece di liberare risorse per l’innovazione e lo sviluppo, nellarealtàilmainstreamfinivacolfararretrarele deboli economie latino-americane. Il confronto con Cina e Corea del Sud, che non hanno seguito queste ricette e sono cresciute, ammonisce Rodrik, non deve trarre in inganno: esso dimostra non la superiorità di questi sistemi quanto che senza i limiti posti da regole, istituzioni e contrappesi il libero mercato non funziona.
Ma, a suo giudizio, gli economisti hanno probabilmenteprodottoildannomaggiorenelvalutarelaglobalizzazionefinanziaria.Dallametàdegli anni ’90, rimuovere gli ostacoli al libero movimentodicapitalièstatounasortadimantradicui anche Ocse e Fmi sono stati artefici. Ne è conseguita una sequenza di dolorose crisi finanziarie in Thailandia, Corea del Sud, Messico, Russia, Indonesia, Argentina, Brasile, Turchia e altrove.
La buona notizia è che gli economisti in gran parte sembrano aver imparato la lezione. Oggi vi èunampioaccordonelritenerechelozeloconcui sièsostenutalatesideibeneficidelliberomercato da ogni intralcio è stato eccessivo. Per quanto la concorrenza libera neutralizzi patologie diverse, resta di valore davvero universale il principio del sistema di controlli e contrappesi che i padri fondatoridelsistemafederaleamericano,JamesMadison, Alexander Hamilton e altri, avevano concepito a suo tempo dando per scontato che il sistema politico avrebbe dovuto confrontarsi con l’egoismo dei gruppi di pressione organizzati.
Dani Rodrik, Ragioni e torti dell’economia, Università Bocconi Editore, Milano, pagg. 228, € 11,90