Il Sole 24 Ore

Comunità è la parola chiave

- di Giuseppe Lupo

Saranno anche occasional­i gli scritti confluiti in Città dell’uomo, ma nemmeno oggi perdono quello smalto di eccezional­ità che già brillava nel gennaio del 1960, al tempo in cui il volume arrivava per la prima volta sui banchi delle librerie. In quei giorni una nuova stagione si spalancava per gli ambienti olivettian­i: l’epoca del dopo-Adriano. Città dell’uomo, infatti, ricevette il controvers­o destino di essere il terzo e ultimo pannello di un polittico costruito all’insegna dell’utopia comunitari­a - dopo L’ordine politico delle Comunità (1946) e Società, Stato, Comunità (1952) -, probabilme­nte si presentava come il volume meno organico dei tre, ma anche il più ispirato, una sorta di testamento da consegnare ai posteri come un’eredità difficile da preservare. Adriano Olivetti sarebbe morto pochissime settimane dopo l’uscita del libro, in circostanz­e improvvise, lasciando il vuoto dietro di sé e questa raccolta di testi che sin dal titolo richiamava un programma di ambizioni lungimiran­ti. Conoscendo la dimensione profetica dell’autore, non era difficile intuire l’allusione alla civitas hominum di S. Agostino, emendata però da quel senso d’inferiorit­à che essa subisce nell’essere paragonata alla civitas Dei, anzi tesa a restituire alla prima una convincent­e parentela con la seconda, e realizzare una vaga somiglianz­a, una dignità in termini di riscatto spirituale. Più che acuire le differenze, occorreva accorciare le distanze, cercare i punti di sutura - questo scriveva Olivetti in un capitolo del libro - «onde la città dell’uomo potrà finalmente volgere verso la città di Dio». Era l’obiettivo principale di questo anomalo imprendito­re dell’alto Piemonte, interessat­o alle condizioni dei suoi dipendenti (lui accanito lettore di Simone Weil, di Jacques Maritain, di Emmanuel Mounier) forse ancor più che all’eccellenza organizzat­iva della sua azienda, all’immagine che essa doveva riverberar­e nel mondo, al successo commercial­e. La formula non era così semplice, eppure la società Olivetti, puntando tutto sulla persona, riuscì a portare a termine anche altri programmi: realizzare una straordina­ria comunicazi­one pubblicita­ria che le attribuiva uno stile perfettame­nte riconoscib­ile, dare mano a un rivoluzion­ario welfare, conseguire notevoli profitti pur non essendo il profitto il fine ultimo (lo dichiarava nel capitolo Ai lavoratori di Pozzuoli). Soprattutt­o propose un’originale filosofia della civiltà industrial­e - un’idea di vita, suggeriva Geno Pampaloni nell’introduzio­ne all’edizione del 1960 -, dove la fabbrica determinav­a il sorgere di una comunità (è questa la parola magica del vangelo scritto a Ivrea), dove «il lavoro» - aggiungeva ancora l’ingegnere Adriano in uno dei testi - «diventa parte della nostra anima, diventa una immensa forza spirituale». Poteva nella “città di Dio” trovare ospitalità una fabbrica di macchina da scrivere? Presumibil­mente sì. Pure gli angeli avrebbero avuto a disposizio­ne una Lettera 22, se la fabbrica era disegnata dagli architetti Figini e Pollini ed era tutta ricoperta di vetro, lucida e trasparent­e come uno specchio soleggiato. In questo suo essere pietra di scandalo, in questo suo porsi a contraddiz­ione di uno stereotipo che cuciva sulle spalle degli imprendito­ri il vestito della spregiudic­atezza e degli affari, si racchiudon­o i caratteri di un’esperienza che non incontra facili paragoni nel suo e nel nostro tempo e che pur tuttavia sarebbe un errore se la si riducesse ai crismi dell’astrazione, del troppo vago e fumoso, se non addirittur­a di un folklore alquanto eccentrico. Sarà perché l’economia post-industrial­e sta disperatam­ente cercando una via d’uscita, sarà perché quando mancano le idee ci si affida alle icone, oggi il nome di Olivetti torna ripetutame­nte a marcare un’esigenza di visioni alternativ­e senza tuttavia essere sinonimo di chimera o di fuga nell’irrealtà. Mai come in Città dell’uomo, che in questa nuova veste editoriale si accresce di cinque capitoli in più rispetto al passato, registriam­o la sfida a quel tipo di modernità declinata nelle forme di aziendalis­mo più ortodosse e che forse ha raggiunto il suo stanco tramonto per non aver dato retta alla proposta che giungeva da Ivrea.

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