Celio, navigatore tra le fedi
Grande umanista, abbracciò, e poi criticò, le più diverse dottrine (da cui fu perseguitato) per approdare a una religione della cultura
Da decenni una feconda storiografia di dimensioni internazionali sta indagando sulla diffusione di idee e pratiche religiose non conformi all’ortodossia romana nell’Italia del Cinquecento. Un fenomeno minoritario, ovviamente, ma più diffuso e capillare di quanto in passato non si pensasse, profondamente influenzato dalla Riforma protestante ma anche da idee provenienti dall’erasmismo, dall’alumbradismo spagnolo, dall’evangelismo francese, non riducibile dunque a un’espansione fallita delle dottrine luterane e poi calviniste, ma dotata di connotati specifici, di peculiare originalità e creatività. In ogni caso, fu un fenomeno importante, anche perché la reazione cattolica messa in campo dalla Chiesa con il concilio di Trento e con la repressione inquisitoriale si definì e operò in primo luogo in contrapposizione alle dottrine e alle comunità ereticali quali esse si presentarono in Italia, ben più che nella lontana Sassonia o nelle città svizzere. Oltre alla tradizione di matrice valdese, furono due grandi storici quali Federico Chabod e Delio Cantimori a dare nuova linfa a questi studi, l’uno scavando con pazienza e finezza negli archivi milanesi per ricostruire la vita religiosa lombarda nell’età di Carlo V, e l’altro seguendo gli intricati percorsi oltralpe degli esuli religionis causa, costretti a emigrare per sottrarsi ai processi del Sant’Ufficio, e in particolare di coloro che anche nel mondo protestante manifestarono inquietudini e insofferenze, polemizzarono contro la precoce istituzionalizzazione della Riforma, continuarono a interrogarsi sulla parola di Dio, formularono ardite dottrine antitrinitarie, teorizzarono una tolleranza religiosa destinata ad evolvere rapidamente in libertà di coscienza, minando così alla radice l’autorità di tutte le Chiese confessionali. Eretici italiani del Cinquecento era il titolo del gran libro cantimoriano del 1939, che tali definiva non i dissidenti rispetto a questa o quella ortodossia dottrinale, ma quanti appunto si erano sottratti all’obbedienza nei confronti di qualunque autorità magisteriale, cattolica o protestante che fosse, «ribelli ad ogni forma di comunione ecclesiastica».
È in questo ambito di studi che si inserisce il lavoro di Lucio Biasiori, che ricostruisce in una sintesi agile e al tempo stesso rigorosa il percorso umano e religioso dell’umanista piemontese Celio Secondo Curione, la cui adesione alle tesi luterane non tardò a costringerlo a continui spostamenti per sfuggire agli inquisitori, tra Torino, Milano, Pavia, Casale, Venezia, Ferrara e infine Lucca, dove tuttavia nel ’42, alla vigilia dell’istituzione del Sant’Ufficio romano, non poté far altro che prendere la strada dell’esilio verso il rifugio in Svizzera. Qui, accompagnato dalla moglie e dalle figlie, si stabilì dapprima a Losanna come praefectus studiorum e poi a Basilea, dove fu titolare della cattedra di retorica dal 1546 al 1569, anno della sua morte. Nella città di Erasmo, del cui lascito finanziario poté usufruire, collaborò con grandi tipografi quali Pietro Perna, Johannes Oporinus, Johannes Episcopius) con edizioni e introduzioni, diede alle stampe un catechismo e celebri raccolte di violente pasquinate antiromane, scrisse libri come il De amplitudine beati regni Dei (Sull’ampiezza del regno di Dio), apparso nel 1554, che dilatava a dismisura la schiera degli eletti, con la conseguenza di attirargli i sospetti e le reprimende dell’intransigente ortodossia ginevrina. Nello stesso anno collaborò verosimilmente con Sebastiano Castellione nella pubblicazione di quel vero e proprio incunabolo della tolleranza religiosa che fu il De haereticis an sint persequendi (Se gli eretici debbano essere perseguitati), scaturito dalla condanna al rogo dell’antitrinitario spagnolo Miguel Servet decretata l’anno prima da Calvino. Partito
| L’umanista Celio Secondo Curione (1503 - 1569). Morì in esilio a Basilea Si aprirà il 20 aprile l’ottavo ciclo delle Lezioni di Storia di Milano, organizzato dagli Editori Laterza nell’ambito del ciclo Ritorni al Futuro, in collaborazione con la Fondazione Corriere della Sera, con il Centro culturale «Alle Grazie» Padri diocesani e con MemoMi - La memoria di Milano. Il tema di quest'anno è «Milanesi» e si declina in dieci incontri nella Basilica di Santa Maria delle Grazie, introdotti da Chiara Continisio, ogni mercoledì alle 21 fino al 22 giugno. La prima lezione, dedicata a «Luigi Albertini, il direttore», è di Paolo Mieli. Il programma completo su www.laterza.it dall’Italia come un esule filoriformato, insomma, anche se passato attraverso esperienze e conoscenze non univoche, il Curione finì i suoi giorni come un “eretico” nel senso cantimoriano del termine. Come scrive Biasiori, «la sua ricerca di una purezza scritturale – e di conseguenza di un cristianesimo ulteriormente liberato da quelle incrostazioni dogmatiche che la Riforma aveva smosso ma non rimosso – lo porterà a scontrarsi anche con i protestanti, nello stesso modo in cui la sua ricerca di una purezza dogmatica e rituale lo aveva costretto a fuggire dall’Italia dell’Inquisizione». Calvinista diventato anticalvinista, antierasmiano diventato teorizzatore della tolleranza, libellista antiromano diventato criptoanabattista e criptoantitrinitario, irriducibile a ogni sorta di etichetta teologica o ecclesiastica, egli ebbe impressi su di sé molti caratteri della Riforma italiana, del suo sperimentalismo religioso, delle sue implicazioni radicali, della sua vocazione spiritualista. Non a caso fu lui a pubblicare a Basilea nel 1550 le Cento e dieci divine considerationi di Juan Valdés, testo capitale per capire il grande successo delle sue dottrine dopo l’ultimo approdo napoletano nel 1535, al punto da autorizzare gli inquisitori a credere che egli avesse «infectato […] tutta Italia de heresia». «Dopo essersi staccato dal cattolicesimo, aver aderito al protestantesimo e lambito l’anabattismo e l’antitrinitarismo, il Curione degli anni sessanta approdava a una “religione della cultura”, in cui la nascente respublica literarum sostituiva la Chiesa primitiva come ideale di vita e di lavoro», conclude Biasiori, dopo aver delineato il suo complesso itinerario tra Italia cattolica ed Europa protestante, sempre vissuto all’insegna del nicodemismo, del nascondimento delle sue opinioni autentiche, di una «costante frattura tra l’interiorità e l’esteriorità». Ragione non ultima, questa, in lui e in altri, dell’esaurirsi di ogni certezza dottrinale proprio all’interno della militanza religiosa e del logorarsi della teologia come forma di conoscenza e strumento di verità.
Lucio Biasiori, L’eresia di un umanista. Celio Secondo Curione nell’Europa del Cinquecento, Carocci, Roma, pagg, 134, € 16